Recensione: Flex-Able Leftovers

Di Ezekiel25-17 - 8 Aprile 2003 - 0:00
Flex-Able Leftovers
Band: Steve Vai
Etichetta:
Genere:
Anno: 1984
Nazione:
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85

Credo che non siano tante le persone che abbiano fornito una corretta chiave di lettura per Flex-Able; personalmente ci provo anche se non garantisco sul risultato. Il disco è veramente strano. Ricordiamo innanzitutto che Steve Vai è un po’ un figlio d’arte adottato, iniziato alla chitarra dal suo grande maestro Joe Satriani (un altro che con la chitarra fa miracoli) e dall’ancora più grande Frank Zappa, in assoluto il compositore di musica rock più geniale del ‘900, padrone dell’eclettica musicale, dalla psichedelia alla musica classica. E Vai da bravo prende tanto dall’uno quanto dall’altro.
In questo suo primo disco solista spazia la sperimentazione più varia, schitarrando appunto alla “Satriani” mettendo insieme in questi 54 minuti di lavoro tutti i rimasugli (leftovers) della produzione di Vai al seguito del Re di Cucamonga, il tutto accompagnato, nel libretto, da pratiche note autobiografiche che permettono di inserire il lavoro nell’ottica corretta di produzione.
Il fatto che Flex-able sia strano permette di leggerlo (o meglio di ascoltarlo) in chiave impressionista. Vai rende il tutto in modo assurdo, tralasciando la profondità dei testi (per esempio Cohen o Cave) e la pura tecnica narcisistica (per esempio Malmsteen) per dar vita ad un manifesto metal di difficilissima assimilazione, un po’ un “Trout Mask Replica” della metal-generation (sempre che gli esperti mi perdonino il paragone).
Si inizia con “#?@! Yourself”, testo assurdo e volgare con il continuo e martellante richiamo all’autocompiacimento attraverso tutti i mezzi possibili. Vai affida a queste parole deformate e mezzo-sincopanti un messaggio di critica, nella quale cadono la religione, le istituzioni, gli avvocati, tutti, insomma, tendenti a “fotterti!”. Ironico commento conclusivo “But for those of you are totally outraged / Fuck yourself with your face”, accusa ai bigotti e poi via, in 4 minuti di fraseggi e decantazioni chitarristiche, esperienze libidinose fuori da ogni regola, sfoggio (di pessimo gusto auto-incensativo) di classe e maestria della sei corde (all’epoca erano ancora sei). Poco resta se non un brano interessante proprio in quanto controverso, realizzato peraltro da Vai che nel libretto scrive “Robin di Maggio – drums, Steve Vai – everithing else”.
Di diversa matrice il successivo “So Happy”, una voce femminile che snocciola pensieri e programmi sovrastando un pianto disperato del neonato. Ordinata e discorsiva, oca nel suo tono vocale ma filo della canzone, una mamma che parla al figlio. E qui Vai si diverte, doppia la voce (distorta e stridula, una voce all’elio) con la chitarra, la segue, pennate alternate ridicole, molto da presa per il culo, finchè chitarra e parole si confondono e la voce pronuncia monosillabi ripetitivi autoconclusivi e privi del benchè minimo significato logico su un’altra schitarrata non-sense.
“Bledsoe bluvd” è facilmente definibile come un delirio soft di riff chitarristici e violinistici, supportati da un testo di ispirazione dadaista e intramezzi di xilofono (mi ricorda “Wowie Zowie”!) e altisonanti sirene di contorto significato… sostanzialmente un viaggio psichico al di là della realtà. Qui Vai ricicla un cliché molto utile, la voce sintetizzata che si mescola all’arrangiamento, ricordando forse Tim Buckley (certo, in questo caso mooooolto menomato!), staccando con passaggi e rullate di batteria prog-rock.
“Natural Born Boy” attacca in modo più aggressivo ma bene o male continua il lavoro precedente, eccedendo nel lato heavy del brano, chitarra molto Van Halen e naturalmente a livelli altissimi (snocciola passaggi di sweep e riff veramente efficaci); il trio di musicisti che la compone è in realtà un duo (Deen Castronovo alla batteria e Steve Vai a basso e chitarra).
“Details at 10” è una divagazione di stampo zappiano, con a metà l’espediente della telefonata, che in questo caso è un’edizione speciale del tg. A un ritmo reggae ma che non disdegna vene di hard blues o soft rock, una voce si staglia a monumento di un carico di marijuana prima di essere interrotta da una giornalista che, entusiasta di essere in TV, snocciola i particolari del massacro di due ragazzine: evidente il sarcasmo verso le istituzioni televisive americane alla costante ricerca dello scoop, con la stessa insistenza che Oliver Stone presenta in “NBK”.
Una canzone che non sarei bene in grado di definire è piuttosto “Massacre” che Vai introduce dicendo che questa canzone è quello che la sua chitarra ha buttato fuori dopo essere stata trascurata per una settimana. Naturalmente vi lascio il piacere di leggere ciò nel libretto del cd, soffermandomi piuttosto sulla semplicità di realizzazione: prodotta interamente da Vai riassume un giro di chitarra ripetuto come il Moto-Perpetuo di Paganini (all’infinito e sempre con una quantità industriale di modifiche) e si affida a una base dance-techno sintetizzata… il risultato è emozionante, nonostante il fastidio della cassa dance: un buon compromesso per le discoteche, dove è risaputo pullulano le belle presenze femminili!
“Burnin’ Down The Mountain” è un crogiuolo del Vai acustico e del Vai elettrico, che ripercorre viaggi sulle grandi pianure e sui canyon, stavolta con delle maracas (o qualche altra strana percussione) di sottofondo, rimembranze indiane e turbinio sciamanico che ha trovato sicuramente interpreti migliori ma non è affatto da disdegnare se la consideriamo un “leftover”.
“Little pieces of seaweed” non si può definire se non come apice del disco, sovrapposizione al movimento zappiano, delirio vertiginoso di arrangiamenti, alterazioni di ogni genere, orgia di suoni e parole, nastri riavvolti, brontolii infantili; una rappresentazione assurda degna di Cpt. Beefheart tanto è spezzata e disomogenea, impossibile da descrivere ma solo da consigliare.
“San Sebastian” è un inutile uscita non-sense.
“The Beast Of Love” inizia a stringere lo sfintere del disco, un lento rythm ‘n’ blues molto caldo, con campanelli, risate assurde e campanelli vari su basi di basso e batteria, prima del solito intervento diretto di Vai-acustico.
“You didn’t break it” attacca con un forte richiamo a Van Halen, poi cambia, sulla falsariga scontatissima di un ritmo punk rock che imita l’hard di pessima manifattura. Passo falso? Non credo: vista la complessità del collage è solo l’ennesima divagazione di un Vai poco motivato. Da notare la line-up di basso di Stu Hamm, al di sotto forse del suo talento naturale ma che al fianco di un virtuosista come Vai risulta apprezzabile.
Le ultime due tracce sono sensazioni. Vai racconta di “The X-Equilibrium Dance”: “eravamo su una spiaggia di Malibu e mi entrò dell’acqua nell’orecchio intero: per 3 giorni non riuscii a stare in piedi. Questa canzone riporta quello che ho provato”. E infatti è una distruzione delle regole con soli tre strumenti scoordinati che si sovrappongono, il tempo a volte cede, il basso è a dir poco impazzito così come la chitarra: 5 minuti di queste divagazioni producono una perdizione interna, scombussolio, proprio incapacità di mantenere l’equilibrio, tanto gli schemi sono bucati.
Chiude il disco “Chronic Insomnia”, la seconda sensazione, stavolta provocata da tre giorni di registrazioni ininterrotte. La stanchezza si mescola in un orgia di suoni e rumori, forzature del Floyd-Rose e deliri vari.
Insomma, il disco si colloca fra i più originali del genere guitar-heroes, conferma le influenze dei maestri e rede a Steve Vai un degno tributo. Certo, mi trovo a paragonare le opere del maestro a quelle dell’allievo: alla fine, la collaborazione di Vai con Zappa stette a significare il declino della sterminata produzione di Frank, che tanto aveva dato ai tempi di capolavori dome “Freak Out!”, “Absoluterly Free” o “Uncle Meat”. Vai regge bene il moccolo, non se la tirava ancora come farà in seguito, mostra di saper usare bene la chitarra e di farne un comodo mezzo di propulsione musicale; un buon disco quindi, che si merita un buon voto se stiamo a considerare la scarsezza di idee che questa parte dell’heavy ci ha lasciato. Penalizza, lo ripeto, il faccia-a-faccia con Zappa, a cui quest’opera è intrinsecamente dedicata/ispirata: sconsigliato a chi adora l’heavy malmsteeniano, “Flex Able” è un disco solo per chi ha vedute molto larghe, musicalmente parlando, naturalmente.

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