Recensione: Servants Of Justice

Di Daniele D'Adamo - 9 Dicembre 2011 - 0:00
Servants Of Justice
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Anno: 2011
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75

Che i nuovi, teneri virgulti nati in Germania stiano dando inizio a una nuova era per il death metal melodico, facendo proprie le sonorità tipiche, invece, delle terre scandinave? Dopo aver messo mano a “Shadowpath” dei tedeschi Kambrium, questo “Servants Of Justice” dei connazionali The Last Hangmen parrebbe confermare la supposizione iniziale.

I giovanotti di Dresda si sono formati solo due anni fa e, dopo una sola esperienza in sala d’incisione (“Promo”, 2010), bruciano le tappe firmando il contratto discografico con l’etichetta di Lübeck twilight-Vertrieb GbR per dare alle stampe il primo full-length di una carriera, si spera per loro, lunga e feconda: “Servants Of Justice”, appunto.

Come affermato dalle info promozionali, la band fonda il proprio sound nello swedish death metal e non solo, citando difatti come influenze principali i Kalmah, Dimmu Borgir e i Dissection. Una volta tanto, tali indicazioni si rivelano corrette così, in breve, si può avere idea di cosa suonino i Nostri. Tuttavia occorre aggiungere qualcosa: l’heavy metal. La matrice classica elaborata sugli stilemi del padre di tutti i generi metal fa da base per la costruzione delle armonie di “Servants Of Justice”. Ciò si può percepire quasi ovunque, sotto le aggressive linee vocali dello screaming (non isterico) di Pether Hantsche – più vicine al black che al death – ma, soprattutto, dentro il guitarwork elaborato da Stefan Beckert assieme a Simon Konze. Le loro chitarre si mantengono ben lontane dalle esagerazioni ritmiche dei riff super-compressi che connotano il sound di ensemble come i Damnation Defaced, per citarne uno proveniente dalla stessa nazione. Anche le battute dettate dal drumming lineare di Ronny Garz e dal preciso lavoro al basso di Sören Kube non eccedono quasi mai, essendo anzi meno veloci di quelle tipiche di In Flames e compagni. A questo si deve aggiungere che i cinque sassoni amano farcire il loro sound con abbondanti manate di orchestrazioni e campionature dalla notevole forza evocativa, specificamente indirizzata verso l’epicità. Con che, alla fine, è un po’ fuorviante riferirsi solo al death per inquadrare correttamente “Servants Of Justice”. Comunque sia, i The Last Hangmen mostrano una maturità artistica (ma anche esecutiva) sorprendente – se commisurata all’esperienza – che, com’è logico, consente ad essi di metter giù uno stile personale e ben disegnato, ricco di richiami al passato ma perfettamente in linea con i tempi.

Il taglio lirico del lavoro si percepisce sin da subito nella classica, pomposa apertura strumentale che, in questo caso, si chiama “The Gallow March”. La locuzione giornalistica “Lupara Bianca”, che descrive gli omicidi di mafia nei quali viene fatto sparire il corpo, è il titolo, curiosamente, della seconda canzone dell’album, legata a filo doppio con la foggia armonica dell’intro. I furibondi blast beats posti all’inizio non devono ingannare: saranno assai rari, durante il cammino. Il tempo, assai vivace, si miscela bene con la spiccata e arabescata melodia portante della canzone; per tale motivo, si può affermare, ottimamente riuscita. Durante i rallentamenti, inoltre, si riesce ad apprezzare la potenza del suono, aggressivo ma non troppo. Dei toni più drammatici ornano, invece, la colonna portante di “The Hypocrite”, heavy-song che, come si è già evidenziato a livello più generale, di death ha poco. Si segnala lo stupendo break centrale, con i suoi rabbiosi soli e le sue ariose atmosfere. L’incipit di “Crash Course Dying” mostra, addirittura, un taglio emotivo oscuro che ricorda il black anche se, poi, il main riff semi-thrash e il ritornello catchy (ma non troppo) riportano il tutto entro i binari del sound che anima “Servants Of Justice”. Di nuovo tanta maestosità in “Little Ease” che, comunque, non regala nulla di nuovo rispetto agli episodi precedenti. La rutilante doppia cassa di “Hang’em High” pone l’accento, di nuovo, a una composizione un po’ scontata, senz’anima. Così, si arriva alla suite “Knocking Tombstones Down”, coraggioso tentativo di inserire in un’unica situazione tutte le peculiarità stilistiche dell’insieme germanico. Forza, delicatezza, lirismo, orecchiabilità e sentimento ci sono tutti, legati assieme da un’inventività e una chiarezza d’idee più che discreta. C’è un pelo di dispersività, a voler vedere il pelo nell’uovo: difficile, infatti, memorizzare i vari passaggi della song anche dopo ripetuti ascolti. Leggermente meno articolata ma comunque abbondantemente sviluppata è la successiva “Cloak And Dagger Operation”, in cui trovano conferma i pregi (molti) e i difetti (pochi) che hanno caratterizzato il brano precedente. Chiude il lavoro “Withdraw The Hangmen!”, copia perfetta di “The Gallow March”.

Ancora troppa discontinuità, quindi, nel songwriting dei The Last Hangmen. L’azzardo di accostare brani dalla ridotta durata ad altri molto più lunghi non aiuta: se ne può apprezzare il coraggio ma manca ancora la necessaria coesione per rendere il tutto omogeneo come si deve. Ci sono margini teorici di miglioramento, giacché “Servants Of Justice” è, in fondo, ‘solo’ l’Opera Prima e la sostanza che la alimenta è, senz’altro, di prima qualità. 

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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Tracce:
1. The Gallow March 2:42
2. Lupara Bianca 4:22
3. The Hypocrite 3:28
4. Crash Course Dying 5:44
5. Little Ease 3:39
6. Hang’em High 3:37
7. Knocking Tombstones Down 10:20
8. Cloak And Dagger Operation 6:31
9. Withdraw The Hangmen! 1:26

Durata 41 min.

Formazione:
Pether Hantsche – Voce
Stefan Beckert – Chitarra
Simon Konze – Chitarra
Sören Kube – Basso
Ronny Garz – Batteria

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