Recensione: Train Of Thought

Di Onirica - 10 Novembre 2003 - 0:00
Train Of Thought
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Anno: 2003
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70

Sono bastati tre giorni per scatenare un macello infernale di fronte ad un voto, ma nessuno ha sentito la mancanza di una valida introduzione che spiegasse il contenuto traccia dopo traccia della recensione riportata qui sotto. Non si possono riportare le mere descrizioni dei pezzi senza considerare in modo globale il disco, questa è una regola per chi desidera adempiere in modo corretto a questo lavoro: ed ecco giungere un benedetto preludio alle mie parole infuocate scritte solo 72 ore fa e che nello stesso intervallo di tempo hanno collezionato lo stesso numero di commenti divisi fra il torto e la ragione (come se questa mai esistesse) per un totale di 3126 letture: chiunque con un minimo di esperienza si sarebbe aspettato questo scontrarsi di opinioni dato il voto deciso per il disco e la mia introduzione serve ora a calmare il clima di tensione venutosi a creare, sapevo che ne avrei avuto bisogno in ogni caso ma se l’avessi pubblicata immediatamente non sarebbe stata neanche presa in considerazione dalla maggior parte dei nostri lettori lanciatissimi in direzione del contenuto delle tracce.

La funzione principale del nostro cervello non è solo quello di percepire e ricordare, non potremmo giudicare un disco se non riuscissimo a svolgere entrambe le cose nello stesso momento. Quello che sto cercando di farvi capire è che quando una canzone raggiunge il vostro orecchio entra immediatamente in correlazione con la vostra cultura musicale, quindi se il brano è identico verrà percepito in maniera estrememente differente da ogni singola persona in qualsiasi caso, anche quando la traccia viene valutata allo stesso modo. Ci sono dischi che piacciono perchè divertono, altri che scavano nella carne e ti portano ad una riflessione che resta per sempre tua. Ora tutti noi veniamo da diverse storie e generi musicali ma almeno in questo periodo della nostra vita ci ritroviamo nello stesso sito a condividere una passione che va in frantumi ogni volta che nei commenti si creano attacchi frontali nei confronti di chi cerca di portare avanti questo portale. Ho letto cose che mi hanno fatto male e pareri che non condivido nel modo più assoluto ma che rispetto, tuttavia solo in pochi hanno preferito aggiungere il proprio commento dopo aver constatato che il sottoscritto si è occupato dell’intera discografia dei Dream Theater con valutazioni spesso prese di mira perchè molto alte. Anni di intenso ascolto progressivo in ogni direzione mi hanno dato un bagaglio che non mi permetterà mai di scrivere recensioni in un sito solo per accontentare chi legge, il nostro lavoro consiste nel parlare in modo sincero sempre, capite bene che se mentissimo a noi stessi crollerebbe l’intero condominio. L’ultimo lavoro dei Dream Theater è come sempre diverso da tutti quello che lo precedono, questa volta però non posso permettermi di sorvolare su notevoli mancanze di stile ed originalità, dalla copertina anonima al songwriting scadente nella prima e ultima traccia, fino al ritornello in terza posizione che consiglierei di ascoltare cercando di ignorare la voce del cantante. Per quanto riguarda il numero di ascolti che ho effettuato prima di iniziare a scrivere vi invito a non farvene problema dato che sono il primo interessato a dare il maggior punteggio alla mia band preferita, non sono un profeta certo! Insomma nella storia di questo gruppo, mai come in questo caso giudicare un loro album può condurre ad accesi diverbi perchè questo dipende dal patrimonio personale con cui ognuno di noi lo affronta, e poi stiamo ben attenti a non confondere il termine evoluzione con quello di adattamento, perchè nel primo caso le modifiche partono direttamente dall’organismo mentre nel secondo è l’ambiente circostante che le determina e vi assicuro che sono molto più rapide. Non ho accettato la scelta della strada più semplice da parte dei quattro newyorkesi e del quinto canadese dopo gli ottimi side project che li hanno divisi in questi due anni, già perchè spesso andare sul sicuro significa scadere tentando di scopiazzare dal miglior periodo di un gruppo storico che più tardi si è rovinato come i Metallica. Dopo aver saldato il lavoro di Rush, Queensryche e Fates Warning con un capolavoro infinito, i Dream Theater non perdono la chiave progressiva che li ha resi famosi ma la utilizzano per aprire una porta già sfondata a calci. Il risultato è un lavoro buono ma che non può avvicinarsi alla stazza di quelli precedenti non perchè sarebbe sopravvalutato ma perchè metterebbe in cattiva luce i sacrifici del 1992/1995/1999, penserò a questo disco sempre come ad un disco da concerto non come ad una perla e non venite a dirmi che bisogna stare al passo con i tempi perchè non sarebbe una giustificazione accettabile. Adesso riscrivo il commento alla quinta traccia mantenendo il voto precedente perchè non penso di essere stato abbastanza chiaro ed infine vi ricordo che una recensione non detta legge ma opinioni che potrete assodare solo ascoltando bene il disco prima dell’acquisto, ognuno si tenga stretto la musica che lo fa sentire felice sempre ed in ogni caso, questo disco vale esclusivamente il voto che gli date voi come allo stesso modo siete liberi di ascoltare o meno i nostri consigli. Lo spazio sotto serve ad aiutarci l’uno con l’altro per scambiarci opinioni in modo pacifico, non trasciniamo la guerra anche qui dentro per cortesia.

[As I Am] Questa è la traccia che il gruppo americano ha gettato in pasto al pubblico qualche giorno prima della data d’uscita dell’album, azione programmata come se avessero in mano il terzo capitolo di Metropolis. In realtà il pezzo presenta pochissimi spunti originali e raggiunge a fatica la sufficienza grazie ad un bridge miracoloso che non si può assolutamente giudicare in termini negativi, per il resto notiamo sin da subito le scelte stilistiche di Mike Portnoy e John Petrucci mentre Jordan Rudess non è praticamente presente per tutta la durata del pezzo, cosa che infastidisce davvero tantissimo il sottoscritto: i produttori del disco decidono di mettere in piedi una struttura generale che ricalchi le sonorità dei primi intramontabili Metallica, quindi il nostro batterista preferito pesta alla grande mentre il chitarrista abbraccia distorsioni aspre e micidiali, a tutto questo si unisce una performance conclusiva di James LaBrie che preferirei non commentare. Ma veniamo al buco nell’acqua chiave in questo disco. Per anni i Dream Theater sono riusciti a contraddistinguersi dalle altre band dotate di grande tecnica perchè sono sempre riusciti a non servirsi solo di essa per scrivere pezzi considerati all’unanime storia del metal progressivo, ebbene questa piccola premessa per aiutarvi a stendere un velo pietoso sul mero esercizio strumentale che costituisce l’assolo di chitarra qui dentro, nessuna emozione e tanta nostalgia. Voto:65

[This Dying Soul] Questa canzone costituisce il quarto e quinto capitolo del brano di apertura di Six Degrees, anche se sono più di uno i riferimenti all’intera discografia del gruppo che si possono fare leggendo le parole e ascoltando la musica. Eccoci di fronte alla traccia più convincente del disco (insieme a quella interamente strumentale che analizzeremo più avanti), sonorità piramidali raggiungono il nostro orecchio quando mi rendo conto che è proprio qui che James LaBrie si sente più a suo agio dato che buona parte della sua estensione vocale ha preso il treno prima: mentre negli altri pezzi sembra aggrapparsi con le unghie alle tonalità più impegnative qui dirige la corsa come nei più grandi successi firmati dal gruppo che tanto abbiamo cantato a squarciagola. Lo stesso pezzo rivela un’ottima produzione da parte della casa discografica ed in particolare possiamo notare come il suono del basso di John Myung in questa circostanza sia stato curato come in nessun’altro caso, onnipresente come sempre accompagna il songwriting di chitarra più coerente all’interno della stessa traccia in questa release. Ottimo l’intermezzo pianistico e carina l’idea di inserire il riff principale di The Glass Prison ma esattamente in questo momento durante il primo ascolto ho avuto uno stranissimo presentimento che incredibilmente mi ha dimostrato subito avere delle fondamenta nel successivo brano. Voto:90

[Endless Sacrifice] Ma stiamo scherzando? Ecco il primo vero e proprio insulto inciso su disco dai Dream Theater, un insulto che danneggia tutti coloro che in queste ultime settimane hanno messo da parte i soldi in attesa di questo trenino giocattolo in grado di lasciare a bocca aperta solo i bambini. La canzone sorge con una ottima introduzione alla strofa principale che presto potrà giudicarsi altrettanto valida, poi però questi cinque hanno il coraggio di incidere un ritornello che a mio parere resterà nella storia dei flop della band: a partire proprio da questi secondi il pezzo si ingarbuglia su se stesso con soluzioni irrimediabilmente imbarazzanti e scontate, i primi secondi della stessa traccia vengono centrifugati nell’ostinato tentativo di arrampicarsi su un vetro troppo chiaro per non lasciar trasparire l’evidente tentativo di giungere alla fine del pezzo nel minor tempo possibile dopo essersi aggiudicati qualche centinaio di acquisti in più. Jordan Rudess interviene per tentare di sdrammatizzare con giochi di prestigio ma non riesce a distrarmi da tanto sdegno, le cose originali e strane si rivelano interessanti quando hanno un significato, chi si vuole prendere in giro. Tocca allo stesso tastierista e al compagno John Petrucci chiudere il pezzo con una disgustosa cavalcata in perfetto stile Romeo/Pinnella che concede e dico concede il colpo di grazia alla song peggio riuscita da venti anni a questa parte. Voto:40

[Honor Thy Father] La creatura più frizzante data alla luce da John Petrucci è forse racchiusa nel riff principale di questo pezzo, ottimo nella sua visione totale solo nell’attacco a 3:50. La struttura del pezzo si difende da qualsiasi evoluzione stilistica con una costante presenza di batteria e chitarra al centro della scena ma se fate veramente attenzione alla stesura compositiva del brano vi renderete conto che è costituito da pochissimo materiale nonostante la sua durata superi i dieci minuti. Il suono di chitarra e tastiera si sposa a meraviglia con le devastanti accelerazioni di Portnoy ma tutto svanisce nel giro di pochi istanti con brusche frenate da parte della voce filtrata di James LaBrie, così il gruppo è costretto a tornare indietro affrontando nuovamente le stesse ritmiche e le stesse parti di chitarra inserendo dove possibile un assolo di tastiera comunque apprezzabile. Vergogna se nel sistemare tanto buon materiale si sia preferito ripetere alla nausa riffoni pesantissimi e parti di doppiacassa velocissime piuttosto che tirar fuori arrangiamenti degni della stessa band meno orecchiabili per un pezzo sicuramente più corto ma di sicuro valido il doppio. La frase pronunciata da James a metà pezzo, quella che poi concede il via libera alle consuete chitarre distorte, può lasciare a bocca aperta chi ascoltando i Dream Theater non restava allibito di fronte a ben altro. Andiamo in fondo all’ascolto e pensiamo al tempo, quanto potrà reggere tutta questa messa in scena? Voto:60

[Vacant] Data la brevissima durata di questo pezzo, che serve ai Dream Theater principalmente per introdurre il brano strumentale che segue subito dopo, non darò un giudizio ma mi servirò dello stesso per decidere se approssimare per eccesso o per difetto la media finale. Pianoforte e voce come nella migliore tradizione del gruppo, parecchio apprezzabile anche la scelta di inserire il suono di uno strumento classico come il violoncello, mai negare spazio alla finezza e allo stile soprattutto quando ci si trova su binari poco convincenti come quelli che ospitano questo disco. Approssimazione: per eccesso.

[Stream Of Consciousness] La mia profonda critica a questo album trova un muro nel ricordo del grande gruppo di Mike Portnoy, scaduto notevolmente nel 2003 ma non ancora così sciupato da non riuscire a mettere a fuoco il poco materiale veramente valido scritto per questa release. Questo è proprio il caso del pezzo strumentale in sesta posizione. Ritroviamo i Dream Theater che tutti si aspettavano di riabbracciare dopo la turbolenza interiore scatenata due anni fa, peccato che all’appello manchi proprio James LaBrie: finalmente riesco a giustificare anche in questo disco la lunga durata dei pezzi dato che fino a questo momento non è stao difficile accorgersi del tentativo spesso utilizzato dal gruppo di aggirare gli ostacoli più alti cercando di prendere in giro chi ascolta. Questa volta però ogni componente gode e lascia godere nell’incastonarsi alle altre, Jordan Rudess riprende pieno possesso della sua tastiera e comincia a suonare come si deve e non come farebbe qualsiasi turnista presente nel disco solo occasionalmente, Mike Portnoy decide per questo pezzo di suonare con le lancette di un vecchio orologio del 1928 modificando il corso del tempo a suo piacere e proponendo tempi contorti questa volta all’interno di un contesto ben più favorevole, il suono di chitarra di John Petrucci dimentica James Hetfield per avvicinarsi al suono dell’unico vero rappresentante del progressive metal in tutto il mondo, ovvero Jim Matheos dei Fates Warning, mentre John Myung continua inarrestabile la sua corsa rivelandosi il personaggio meno deludente di questa uscita discografica tanto attesa. Quando superiamo la prima metà del brano ritorniamo al progetto più famoso del gruppo chiamato Liquid Tension Experiment, il tempo acquista molteplici forme e volti fino a ricondurci al motivo iniziale che apre questo capitolo. Voto:95

[In The Name Of God] Entriamo nella parte conclusiva del disco e ci scontriamo contro il grande difetto dell’album, un ossessivo bisogno di accostare a riff prepotenti candide melodie di facile ascolto, obiettivo che il gruppo americano non è riuscito a raggiungere quasi in nessun caso. Abbastanza imbarazzante assistere ad impervi cambi di direzione che spezzano ogni contatto compositivo e strumentale con le prime centinaia di secondi del brano più lungo del disco, un songwriting micidiale con ovvi riferimenti alla gestione del governo americano e alla situazione terroristica internazionale che nella sua metà trova spazio solo per una jam session che gruppi di questa portata tirano fuori in 5 minuti di improvvisazione in saletta. Non riesco a fingere di non notare ancora la fatica delle linee vocali di James che probabilmente avrebbe fatto meglio a pensare a delle soluzioni più carine nel suo gruppo principale, piuttosto che impegnarsi contemporaneamente con i Frameshift. Un altro ritornello troppo sdolcinato sprofonda questo disco nell’abisso delle grandi delusioni del 2003 insieme all’ultimo album dei Queensryche, un anno importantissimo per gruppi che la InsideOut ad esempio è riuscita a celebrare in questi mesi e che adesso trionfano di fronte ai maestri. Voto:55

Quella sotto è la media dei voti (67.5) arrotondata per eccesso.

Andrea’Onirica’Perdichizzi

TrackList:

01. As I Am
02. This Dying Soul
03. Endless Sacrifice
04. Honor Thy Father
05. Vacant
06. Stream Of Consciousness
07. In The Name Of God

Produced by John Petrucci and Mike Portnoy
Engineered by Doug Oberkircher
Mixed by Kevin Shirley

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