Recensione: When the Kite String Pops
Nel magma ribollente, decadente, ma di mutazione del metal degli anni ’90, “When the Kite String Pops” degli Acid Bath si impone come un corpo estraneo: disturbante, deviato, emotivamente devastante. Non ha nulla a che vedere coi Fatih No More, coi RHCP o coi Pantera, band che stavano riscrivendo il rock/metal con grande successo. Qui c’è dell’altro. C’è innovazione, idee e alchimia tra stili. Uscito nel 1994, oggi è considerato un classico dello sludge metal, ma ridurre questo album a un solo genere sarebbe fuorviante. È piuttosto un ibrido contaminato, un crossover violento e visionario che sfida ogni tentativo di classificazione netta. La band della Louisiana costruisce un’opera monolitica e delirante, dove sludge, doom, grindcore, gothic, hardcore e grunge si mescolano in un impasto sonoro tanto corrosivo quanto affascinante.
I riff hanno una attitudine ‘Sabbathiana’; sono grevi, velenosi e impastati con la sporcizia tipica del southern-sludge e alternati a cambi di tempo improvvisi, accelerazioni grind, aperture melodiche e psicotiche degne del miglior gothic rock. Gli Acid Bath non si limitano a riproporre uno stile: lo spezzano, lo contaminano, lo ricostruiscono, incollandolo con sporcizia, ma con una creatività fuori dal comune. Brani come “Tranquilized”, “Dope Fienrd” o “Dr. Seuss Is Dead” ne sono un esempio lampante: non esistono strutture prevedibili, solo una spirale discendente fatta di suoni marci e atmosfere lisergiche.
Ma è sul piano lirico che “When the Kite String Pops” assume un peso specifico rarissimo: si tratta di un album ossessionato dalla morte, dalla malattia mentale, dalla distruzione dell’‘io’. I testi di Dax Riggs sono un incubo poetico popolato da droghe, visioni malate, desideri autodistruttivi e immagini ultra-violente, declinate con una scrittura che fonde surrealismo, decadentismo e nichilismo esistenziale. Ogni brano è un affondo nel lato più oscuro della psiche, senza mai cercare redenzione. Il tono è diretto, brutale, ma allo stesso tempo profondamente letterario: non c’è compiacimento, solo una necessità disperata di espressione. Il tutto centrifigugato con una attitudine pura, che arriva dritta.
A rendere il tutto ancora più perturbante c’è l’artwork di copertina, tratto da un dipinto del lercio serial killer John Wayne Gacy. La front cover ha generato polemiche e censure, venendo addirittura bannato in alcuni Paesi. Un gesto provocatorio ma coerente con il contenuto dell’album che non cerca mai il compromesso, né l’approvazione, nemmeno visiva.
La carriera degli Acid Bath si è conclusa troppo presto, nel 1997 forse perché la loro proposta era troppo in anticipo sui tempi, forse troppo eterogenea e anarchica o forse perché non pienamente compresa da un pubblico ancora intento a definire i contorni di un genere come lo sludge. O forse, e più tristemente, a causa della morte prematura del bassista Audie Pitre che ha messo fine all’esperienza della band. Quello che resta è un full-length di esordio che ha saputo trasformare dolore, alienazione e violenza in arte. Ha raccolto il cambiamento musicale fornendo una tavolozza ispirata con gli elementi essenziali per ispirare il cambiamento stesso, influenzando di fatto, nel quasi silenzio dell’underground, decine di band e conquistando nel tempo lo status di cult assoluto.
Chiudiamo la nostra disamina dicendovi che “When the Kite String Pops” non è un ascolto facile. È un viaggio disturbante dentro le macerie della mente umana, un’opera che destabilizza, ferisce e incanta. Ma per chi cerca nella musica un’esperienza totalizzante e autentica, da strada, che puzza di asfalto e di cambiamento storico, ecco, “When the Kite String Pops” è il disco per voi.