Recensione: Breathing Machines

Di Fabio Vellata - 12 Novembre 2014 - 0:03
Breathing Machines
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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69

Molto interessante dal punto di vista concettuale. Qualcosa meno in termini di mera resa sonora.

Dopo aver militato per un buon numero di anni nelle fila degli Astarte Syriaca – prog band romana di discreto successo – il chitarrista Andrea Neri si lancia nella mischia dello scenario musicale nostrano, divenuto ipertrofico e densissimo, a cavallo di una nuova “realtà” costruita secondo schemi maggiormente contemporanei e votati alla commistione stilistica.
Stage Of Reality, progetto ideato in collaborazione con il singer dei Dreamscape, Frank Marino, si presenta, infatti, nelle vesti accattivanti di un crossover volto a miscelare le influenze d’estrazione prog del fondatore, con riverberi hard rock e stoner, chitarre corpose (costante l’uso della sette corde) di radice quasi metalcore ed un taglio elettronico-futuristico-modernista che, in parallelo con il concept descritto dalle lyrics, offre sfumature d’avanguardia ad un album d’esordio dalle potenzialità senza dubbio notevoli.

Avvolto e nobilitato da una cura dei particolari semplicemente esemplare (bellissima ed elegante la confezione, buonissimi i suoni, ottimi gli arrangiamenti), il primo album degli Stage of Reality – come accennato in apertura –  si dimostra tuttavia alquanto fascinoso in termini di argomentazioni, testi ed atmosfere, quanto piuttosto deficitario a livello di puro coinvolgimento sonoro ed emotivo. Una storia incentrata sui temi della decrescita culturale, della massificazione del pensiero e sull’abbruttimento collettivo dell’intelletto (evidenti i trait d’union con “La Fattoria degli Animali” e “1984” di Orwell, opportunamente citati in biografia) viene, in effetti, resa con ambientazioni il più delle volte cupe ed opprimenti, alle quali – per scelta o meno, che dir si voglia – manca parecchio mordente e forza per imporsi.
Strumentalmente ineccepibile, “The Breathing Machines” è la visionaria immagine di un’umanità trasmutata in semplice accozzaglia d’individui che, meccanicamente, sperimenta un’esistenza vuota e ripetitiva, fatta di pensieri preconfezionati e “televisivi”. Va da se che, per ovvi motivi, melodicamente le composizioni mai avrebbero potuto essere di taglio gioioso o solare. Evidente come, per rendere palpabile la sensazione di appiattimento subito da uno stato sociale privo di nerbo e forza d’animo, la scelta compositiva non potesse che essere per certi versi conforme, riservando un menù fatto di brani dal prevalente lato oscuro, animati da una certa “meccanicità” e di rado aperti a soluzioni immediate.

Un taglio insomma che, a partire dalla title track d’apertura, offre notevoli doti strumentali ed una più che valida resa sonora, costellata però da un feeling talora arido ed asettico, in grado di lasciar trapelare emozioni significative solo di quando in quando.
Una buona “Shadows From The Past”, cantilenante nenia che ha il pregio di porre in risalto un ottimo lavoro di chitarra, non è ad esempio, assecondata dalla successiva “Good & Evil”, passaggio dagli accordi quasi alternative che non brilla per particolare inventiva e dinamismo.
L’altrettanto interessante “Grey Senses”, episodio movimentato che alterna il funky degli Infectious Grooves con ambientazioni futuristiche, solleva invece il tiro rispetto alla precedente “Five Senses”, traccia statica e ripetitiva, descrivibile come un incontro un po’ appannato tra Depeche Mode e The Cure.
Con un pizzico di brio in più gli Stage Of Reality riescono però a mandare a referto anche alcuni passaggi di classe superiore, da identificare con la visionaria “The Building” e la seguente “Mindless”, pezzi che finalmente riescono a porsi in equilibrio tra atmosfere darkeggianti, il giusto piglio rock e la voglia di sperimentazione.
Non male pure la crepuscolare e decadente “Where Are We Going”, per quanto, anche in questo caso, un minimo di appannamento sia rilevabile.

Una prima uscita dall’anima ambiziosa che però, talvolta, si presenta ancora come piuttosto altalenante, non del tutto sincronizzata tra il desiderio di emergere, dicendo qualcosa di nuovo, e le concrete possibilità di coinvolgere l’ascoltatore.
Ancora molti i momenti un po’ ripetitivi e meno frequenti di quanto sperato gli attimi davvero capaci di farsi ricordare.

Un plauso è comunque garantito per l’evidente tentativo di creare qualcosa di differente, legato a tematiche molto attuali ed evolute. Ancor di più da rimarcare l’insieme globale del prodotto, racchiuso in una confezione di grande impatto visivo e ad una cura dei particolari a dir poco ammirevoli oltreché di grandissimo fascino.
Serve trovare qualche pezzo che sappia colpire più a fondo, poi, chissà…

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