Recensione: Chasing Shadows

Di Stefano Usardi - 24 Maggio 2024 - 10:00
Chasing Shadows
Band: Sunnata
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Progressive  Sludge 
Anno: 2024
Nazione:
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72

Quinto lavoro per gli sciamani polacchi Sunnata, che a tre anni dal precedente “Burning in Heaven, Melting on Earth” danno alla luce questo “Chasing Shadows”. Il genere dei nostri si declina come un ibrido multiforme e serpeggiante tra stoner e doom, con una spiccata propensione a creare atmosfere ipnotiche e dal misticismo dilagante. I pezzi che compongono “Chasing Shadows” si sviluppano su un tappeto ritmico scandito e ripetitivo, arricchito da melodie cavernose e da voci impastate, raglianti e flemmatiche; ciò contribuisce a creare un’atmosfera straniante, al tempo stesso dilatata e incombente, il cui afflato rituale viene spezzato di tanto in tanto da rapide sfuriate più arcigne o da rallentamenti sognanti. Il risultato è un lavoro dall’intrigante carica evocativa, che sfrutta il dualismo tra una natura quasi progressive e poderosi indurimenti sludge come base per impennare il tasso onirico della propria ricetta. Undici tracce complessive per un’ora e spicci di musica, suddivisa in quattro coppie di brani lunghi e densi da tre intermezzi tribali: una struttura volutamente scandita che non fa altro che accentuare la valenza sciamanica e rituale di “Chasing Shadows”.

Il viaggio inizia con “Chimera”, che stabilisce immediatamente il tono che troveremo nell’album: un lento e inesorabile rito di evocazione, che costruisce la tensione su un ritmo tribale dal crescendo ostinato e deflagra negli ultimi, rabbiosi minuti. “Torn” si apre su una melodia vocale lamentosa e malsana sorretta da un giro di chitarra ripetitivo e riarso, che di tanto in tanto alza i ritmi mantenendo, però, il suo fare straniante. Il rallentamento centrale concede una pausa dilatando i tempi, salvo tornare a calcare la mano prima del rilassamento finale. “At Dusk”, primo intermezzo, mette in scena arpeggi riverberati dal profumo cavernoso e rimandi a certo ambient dall’atmosfera southern, mentre “Wishbone” torna a giocare con melodie ipnotiche e dal fare concentrico, prima di alzare il tiro con un fare più incombente. Il pezzo mantiene questo dualismo tra una strofa nervosa ed insinuante e rapide sfuriate, e ci conduce senza troppi scossoni all’arpeggio inquieto di “Saviour’s Raft”. Qui si torna a impennare la carica mistica grazie ad un ritmo tribale e melodie malsane, sghembe, inframmezzate da passaggi più meditativi ed ispessimenti minacciosi, cupi. Anche qui, procedendo col minutaggio il pezzo si carica di una sempre maggiore frenesia, penalizzata però da una foga vocale forse troppo sopra le righe. L’incombenza plumbea del doom torna a farsi largo nel finale beffardo, intimidatorio, ripreso per certi versi dal successivo intermezzo “Adrift” per sfiammarne adeguatamente le ultime propaggini. “The Tide” si gioca la carta del misticismo ipnotico e rituale, e confeziona un pezzo dal fare insistente e ripetitivo che mi ha ricordato una versione desertica dei Wardruna. L’arpeggio languido di “The Hunger” si carica quasi subito di tensione, sviluppando un tiro nervoso che non esplode mai del tutto e illudendo che gli ispessimenti della sua seconda metà riescano a sfogarne il fare snervante. Ciò ovviamente non avviene, e il pezzo continua a rodere senza sosta come la fame che intitola il pezzo. “Through the Abyss”, ultimo intermezzo dell’album, scivola via su un arpeggio inquieto e vagamente dissonante senza far nulla per scaricare la tensione accumulata col pezzo precedente, e cede il posto in poco meno di due minuti a “The Sleeper”, in cui questa tensione finalmente esplode grazie all’improvvisa sventagliata che si appropria della traccia dopo l’inizio insinuante. La melodia malata e vagamente orrifica che subentra sembra destinata a spegnersi pian piano, salvo caricarsi rapidamente di una nuova frenesia che ci accompagna al finale. A questo punto arriva la spiazzante, almeno per me, “Like Cogs in a Wheel, we’re Trapped between Waves of Distorted Time”: pezzo strumentale che sbriciola la tensione con un andamento vagamente trance che poco ha a che spartire con quanto sentito nel resto dell’album.

A parte questo passo falso sul finale ho apprezzato “Chasing Shadows”: i Sunnata confezionano un lavoro corposo ed evocativo, che nonostante qualche passaggio tentennante che potrebbe limitarne la digeribilità si dimostra comunque capace di creare le atmosfere giuste e trasmettere una piacevole inquietudine.

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