Recensione: Dar de duh

Di Daniele Balestrieri - 26 Novembre 2012 - 0:00
Dar de duh
Band: Dordeduh
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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79

“From destruction comes life”, diceva un certo gruppo pagan nel 1995. E proprio un violento colpo di mano tra Hupogrammos, Sol Faur e Negru ha appiccato le fiamme alla scena del folk rumeno, mandando essenzialmente in pezzi i leggendari Negura Bunget e riformandoli in extremis dopo una feroce campagna di reclutamento da parte del batterista, rimasto unico in piedi sulla terra bruciata con un nome troppo pesante da sostenere sulle spalle.

Poi, un bel giorno del 2010, un timido virgulto dal nome di Dordeduh è apparso tra le strade di Timisoara e ha iniziato a sgomitare ringhiando e con il coltello tra i denti, determinato in tutto e per tutto a riprendere la supremazia del folk metal rumeno orfano, a detta loro, di un leader incontrastato.
Questo perché Negru in realtà insieme agli strumenti ha perso anche due tra i più grandi contributori dei Negura Bunget e la mano pesante di Hupogrammos si fa sentire in questo Dar de Duh, primo esperimento volto a istradare una carriera che si prospetta lunga e non di certo derivativa. Certo bastano 5 secondi per avere un’immediata spiacevole impressione che i Dordeduh abbiano voluto imitare in tutto e per tutto il gruppo dal quale si sono separati, ma in realtà bisogna capovolgere il problema e leggerlo da tutt’altra ottica: ora come ora sono proprio i Negura Bunget a rischiare di diventare una derivazione dei Dordeduh. Non basta portare il nome di Negura Bunget per ereditare l’anima dei Negura Bunget; l’anima della musica è nelle braccia e nella mente di chi la compone e se le braccia e la mente si allontanano… il nome si avvizzisce e muore come un albero a cui sono state recise le radici. Nessuno deve sorprendersene e non è una novità nel mondo della musica: diverse band private della mente che le ha partorite sono diventate solo ombre di ciò che erano in passato.

Nonostante tutto, questo Dar de Duh riesce a suonare contemporaneamente molto e poco Negura Bunget. Intatta ne è l’ispirazione fondamentale: cantato rigorosamente in rumeno, addirittura pare che il titolo stesso dell’album sia scritto in una lingua protorumena agonizzante di cui esistono solo 48 lemmi e 3 dei quali – dor, de e duh – trasmettono l’intraducibile sensazione di una triste ricerca nostalgica dello spirito.
E francamente non esiste una recensione più pregnante della semplice traduzione del titolo dell’album, perché è proprio questo il cuore musicale pulsante dei Dordeduh: una lenta introspezione di quasi 80 minuti che tramite brevi sfuriate e lunghissime e articolate sezioni folkloristiche spingono a rivangare giorni assolati, ricordi ancestrali e voci notturne nei meandri della mente.

La prima traccia è il biglietto da visita ideale, sapientemente piazzato come un poker d’assi in una mano molto debole. Senza dubbio “Jind de Tronuri” è una dichiarazione di intenti che usufruisce dei 18 minuti a propria disposizione per intrecciare parti black/death a parti acustiche con una struttura estremamente ricercata, chiarissimo prodotto dell’esperienza maturata in più di una decade di militanza tra le file dei Negura Bunget, che fin dai tempi di ‘N Crugu Bradului ci hanno viziato con importanti sperimentazioni e arrangiamenti sempre originali sulla scia di una musica accorata e molto personale. Imperdibile il legato “astrale” che dagli 11 minuti e 40 secondi porta a una vera e propria esplosione pastorale che azzittirebbe persino i maestri del folk scandinavo di ultima generazione.
Anche se molto di ciò che brilla in quest’album è a tutti gli effetti oro, non tutto è rose e fiori in Dar de Duh – come è vero che alcuni passaggi lasciano letteralmente senza fiato, così è altrettanto vero che alcuni si trascinano quasi oltre il limite della sopportazione senza aggiungere tasselli significativi all’opera in corso, e del resto una monumentale durata di 1 ora e 17 minuti è da sempre più un ostacolo che un punto di forza.

Tra i segmenti assolutamente onesti e sinceri di un album che vuole prepotentemente attingere alle tradizioni musicali già stabilite con i Negura Bunget, non riesco a evitare di respirare venti di novità che si distaccano per esempio dalle sezioni ritmiche troppo stanche di Om. Si sente a tratti l’aria dei vicini di casa Drudkh nelle atmosfere cataclismiche della seconda metà di “Zuh” o di Nachtmystium/A Forest of Stars negli strascichi acustici trasognati di “Cumpat“. Tutto sembra lavorare al fine ultimo di rendere il viaggio relativamente tranquillo e senza scossoni, tuttavia una volta che la “polverina magica” inizia a perdere il suo effetto si iniziano a palesare le buche lungo la strada.
Le lunghissime parti melodiche tendono a distogliere l’attenzione dal disco – siamo a eoni di distanza dai macigni melodici al cardiopalma dei Moonsorrow di ultima generazione – e a mio personale giudizio il cantato pulito non funziona. Potrebbe essere una sentenza troppo brutale, ma il problema è che la voce di Hupogrammos è e rimane troppo monotona e lamentosa. È certamente un mago nel far danzare le corde del salterio degli Appalachi o del mandolino, ma quelle vocali dovrebbe abbandonarle a qualcuno che riesca a trasmettere la furia palpitante delle sue canzoni che si dimenano nei pentagrammi e che meritano una voce alla loro altezza. Questione di gusti, ovviamente, ma quando la sopracitata polvere si è adagiata al suolo – dopo il cinquantesimo ascolto – è stato più facile delineare i problemi che ai primi ascolti assomigliavano solamente a delle strane sensazioni adagiate in fondo alle orecchie, senza una forma precisa.
Questi Dordeduh mi piacerebbero più concentrati, in tutti i sensi, e in grado di dominare la grande potenza che scaturisce dal loro talento, invece di farsi dominare e indulgere in soluzioni che potrebbero alla lunga giocare contro di loro.

Comunque sia, volenti o nolenti, adesso dobbiamo considerare Negura Bunget e Dor de Duh come due entità separate e mi sento di affidare le mie speranze future a questi ultimi, in quanto più efficaci nell’utilizzare l’immaginario musicale per perforare il sottile velo del quotidiano e rivelare una bellezza pungente ed evanescente che molti di noi non riescono a percepire se non in quei pochi, rari momenti di solitudine interiore.

Daniele “Fenrir” Balestrieri

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TRACKLIST:

1. Jind de Tronuri (16:19)
2. Flacararii (6:42)
3. E-an-na (8:24)
4. Calea Rotilor de Foc (12:04)
5. Pândarul (8:21)
6. Zuh (13:46)
7. Cumpat (7:28)
8. Dojana (4:45)

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