Recensione: In the Temple of the Tyrant

Tempo di debutto per gli americani Behölder, vigorosa compagine nata nel 2021 per volere del chitarrista Carlos Alvarez (Shadowdance e Power Theory) con l’obiettivo di coniugare le sue due passioni: il doom metal epico e Dungeons&Dragons. Inutile dire che, da ex giocatore e dungeon master di D&D, una proposta come quella di “In the Temple of the Tyrant” – in uscita domani – mi ha comprato subito, e la copertina raffigurante il famoso mostro “pluri–occhiuto” da cui il combo d’oltreoceano prende il nome non ha fatto altro che aggiungere carne sul fuoco delle mie aspettative. Una volta pigiato play, poi, le suddette hanno trovato piacevole conferma: i Behölder incedono con la giusta pesantezza e il tono solenne e sanguigno di un corteo di flagellanti per le vie di una città della Costa della Spada. Il quintetto sfrutta bene la voce piena di un ottimo John Yelland per ammantare di enfasi una materia musicale che parte effettivamente da un doom solenne, ma si trasforma presto in un ibrido più belligerante grazie ad elementi presi da heavy classico e US power. Capita, durante l’ascolto di “In the Temple of the Tyrant”, di percepire echi dei primi Demons&Wizards, dei Sorcerer o di certa scena power mitteleuropea, ben amalgamati nella matrice sonora dei nostri e pronti a profumarne le pieghe coi loro riverberi. Ciò dona rotondità e una bella verve all’album, impreziosendo un manto sonoro tradizionalmente cupo con riflessi dai colori cangianti e distogliendo l’attenzione dal fatto che i Behölder si allontanino raramente dall’acqua bassa, giocando spesso sul sicuro con riff e soluzioni abbastanza classiche.
La partenza è notevole: “A Pale Blood Sky” avanza inesorabile grazie a tempi quadrati e cafoni che sostengono chitarre taglienti e muscolari, a metà strada tra la carica intimidatoria del doom più arcigno e sinistro e la robustezza dell’heavy classico, punteggiate qua e là da un tocco più esotico, mediorientale. “Dungeon Crawl” alza i giri del motore, mescolando arpeggi minacciosi ad un fare più agguerrito che di colpo si apre ad un intermezzo solenne, quasi sognante, prima di tornare a menar fendenti. Le anime del pezzo si alternano, chiudendosi con una nuova nota solenne che sfuma nella successiva “Into the Underdark”. Qui si torna ad una rudezza tipicamente heavy, fatta di riff grossi, cupi e minacciosi e ritmi squadrati che cedono il passo ad improvvisi squarci dal piglio anthemico durante il ritornello. Il rallentamento centrale insinua una nuova dose di minaccia nella miscela dei nostri, ma tutto torna nei binari più canonici in tempo per la rincorsa finale. “Eyes of the Deep”, che vede la partecipazione di Tomi Joutsen degli Amorphis, si apre su un arpeggio inquieto che tratteggia un’atmosfera cupa ed oppressiva. Il pezzo guadagna corpo con calma, giocherellando con melodie al tempo stesso suadenti e minacciose e serpeggiando tra un tono inquisitoriale, sporadiche frustate più rabbiose e qualche improvvisa impennata maestosa. “For Those Who Fell” gioca la carta dell’enfasi drammatica, dispensando arpeggi dimessi e rassegnati e caricandoli pian piano di un pathos solenne ma anche piuttosto scontato. Il breve assolo irrompe al momento giusto e colora il pezzo di toni elegiaci e crepuscolari, ma non basta per risollevare una traccia un po’ sottotono. Con “Draconian (Slave or Master)” si torna sull’attenti: il pezzo torna a dispensare tempi monolitici e chitarre ruggenti, ammantando il tutto con melodie solenni che cedono il passo a squarci più maestosi. La seconda metà del pezzo alleggerisce la preponderanza doom in favore di un approccio più agguerrito, che in alcuni tratti – soprattutto per quanto riguarda la resa vocale – mi è sembrato volesse strizzare l’occhio agli ultimi Blind Guardian. L’enfasi solenne torna padrona della scena nella fosca “Summoned Bound”, traccia dall’attitudine oscura e meditativa dominata da chitarre arcigne e una voce che si fa stentorea, declamatoria, stemperata di tanto in tanto da aperture più morbide e qualche sporadico indurimento. Chiude il sipario su “In the Temple of the Tyrant” la robusta “I Magus”, pezzo protervamente heavy/doom che impenna il tasso di arroganza del gruppo, che dispensa martellate impietose ma si diverte anche a piazzare qua e là fraseggi meno incombenti che tornano a richiamare, nel finale, i bardi di Krefeld, poco prima di sfumare nell’arpeggio conclusivo.
“In the Temple of the Tyrant” è indubbiamente un bel debutto, che nonostante giochi spesso sul sicuro farà di certo la felicità dei fan dell’heavy più cupo e cadenzato, grazie a canzoni robuste e combattive e un paio di belle zampate al momento giusto. Un gruppo da tenere d’occhio, come minimo.