Recensione: Let All That We Imagine Be The Light

I Garbage hanno pubblicato il loro attesissimo ottavo album in studio, “Let All That We Imagine Be The Light”. Sono passati tanti anni da quando, nel lontano 1995, scoprii i Garbage con il loro omonimo album di debutto e, lo ammetto, mi innamorai subito di questa band d’ oltreoceano. Il tempo passa, ma “Let All That We Imagine Be The Light” è inconfondibilmente Garbage. L’album presenta tutti i tratti distintivi e i suoni caratteristici della band: chitarre ampie e graffianti, ritmi precisi e propulsivi e paesaggi sonori cinematografici. Tutti questi elementi sono impreziositi dall’inconfondibile voce di Shirley Manson, i cui testi sono carichi di carattere. Questo disco dimostra una band al culmine delle proprie capacità creative, che impiega con maestria le sue caratteristiche giustapposizioni sonore e gli stati d’animo per creare un album che pulsa sia di luci che di ombre.
“There’s No Future In Optimism”, pubblicato come singolo, ci accoglie in un’atmosfera cinematografica avvolgente. La chitarra distorta riverbera con una staticità che evoca i frenetici graffi, completando le sfumature orwelliane del brano: una notte buia e terrorizzante, persone che marciano, sciami di poliziotti e sirene ululanti. Tuttavia, a differenza del romanzo 1984 di Orwell, nell’universo dei Garbage è l’amore che riesce a immaginare nuovi futuri.
Segue “Chinese Fire Horse”, in cui Shirley Manson si rivolge apertamente ai critici misogini che la giudicano troppo ‘vecchia’ per la vita pubblica e le performance. La canzone, tuttavia, si configura come un vero e proprio omaggio di Shirley Manson a se stessa.
Nata nel 1966, l’anno del Cavallo di Fuoco nello zodiaco cinese, noto per la nascita di donne “matricide”, Manson ripete con forza il ritornello “Non ho finito”. Sarcastica e fiera, la nostra Shirley lascia un bel segno in questo brano.
In “Hold”, i Garbage ci presentano un brano che fonde magistralmente sonorità Industrial, pur mantenendo intatta quella classe e raffinatezza che da sempre li contraddistingue. L’aggressività tipica del genere viene qui filtrata attraverso la lente distintiva della band, creando un suono potente ma al tempo stesso elegante e controllato. È la dimostrazione di come i Garbage riescano a incorporare influenze diverse senza mai snaturare la propria identità musicale.
Con la traccia successiva “Have We Met (The Void)” la band ci dimostra che, se il vuoto dovesse avere una colonna sonora, sarebbe un sintetizzatore Moog che danza su e giù per una scala minore. Per i Garbage, però, il vuoto non è un concetto stancante o ripetitivo. Al contrario, esso riflette le nostre riflessioni, le nostre storie.
In “Sisyphus”, la voce di Shirley risplende come una solitaria figura umana in un campo desolato e contaminato. La registrazione, con le sue sonorità industrial-orchestrali, evoca un paesaggio post-umano soffocato dal vento, dove il suono di lattine arrugginite e shaker elettrici si fonde con i cori sussurrati di Manson. Ispiratosi alla mitologia greca, “Sisyphus” un brano in cui simboleggia la resistenza, perseveranza e l’accettazione della vita nonostante le difficoltà.
“Radical” emerge come il brano più evocativo e lirico dell’intero album, un vero e proprio inno che richiama con forza lo stile electro-grunge che ha caratterizzato l’esordio dei Garbage. Questo pezzo non è solo una dimostrazione di pura energia, ma è profondamente intriso della passione e della potenza inconfondibile della band, capace di fondere sonorità ruvide con una sensibilità poetica rara e toccante.
Con “Love To Give”, i Garbage non solo creano un brano, ma forgiano un suono che evoca prepotentemente i ritmi dei primi anni Duemila, infondendo nella canzone quell’energia contagiosa e quell’atmosfera tipica di quel periodo. Un brano che potrebbe fondere lo stile dei Pulp con quello dei Muse.
È un pezzo che mescola sapientemente la loro inconfondibile impronta stilistica con richiami nostalgici, dimostrando ancora una volta la loro capacità di innovare pur rimanendo fedeli a sé stessi.
“Get Out My Face AKA Bad Kitty” si presenta come un vero e proprio inno alla stanchezza intesa come forma di resistenza, in cui la band si rivolge agli haters con una sonorità sorprendentemente esilarante. Le chitarre e il basso, con il loro suono droning, evocano una sfumatura di spossatezza che si fonde perfettamente con la voce prosciugata di Shirley Manson, la quale dichiara: “Voglio urlare”.
Tuttavia, Manson non urla mai davvero, né lo ha mai fatto, rimanendo fedele alle tendenze anti-alt-rock che da sempre caratterizzano i Garbage. Questa scelta stilistica rafforza il messaggio del brano, trasformando la stanchezza in un atto di sfida controllata e deliberata.
In “R U Happy Now”, i Garbage si cimentano con temi politici, pur mantenendo una certa indeterminatezza, soprattutto nel riferimento al “post-elezioni”. Il brano si apre con “Everybody loves a winner”, un verso preso in prestito dal celebre musical “Cabaret”, a conferma del classico stile dei Garbage di attingere liberamente da diverse fonti.
L’album si conclude con “The Day That I Met God”, che rappresenta il grido esistenziale definitivo dell’album. Il brano si sviluppa su un crescendo musicale dai toni epici, rivelando una duplice natura, celestiale e demoniaca al tempo stesso. Questa dicotomia, seppur presente in vari momenti del disco, non è mai stata così chiaramente manichea come in questo finale.
“The Day That I Met God” offre l’interezza di ciò che l’album rappresenta, tra nichilismo e narrazione filosofica, abbracciando pienamente questa magnificenza sonora.
In sintesi, questo album rappresenta la tipica sonorità dei Garbage, densa ed avvolgente, rivelandosi un’opera che è decisamente profonda e riflessiva, inequivocabilmente un disco figlio dell’ era che stiamo vivendo e, che la analizza e la riflette attraverso spasmi di rock d’altri tempi e spunti industrial equamente distribuiti.