Recensione: Planetary Overload – Part 1 – Loss

Di Tiziano Marasco - 28 Agosto 2019 - 0:01
Planetary Overload – Part 1 – Loss
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L’arrivo sulle scene della United Progressive Fraternity (UPF), cinque anni fa, era stato seguito con un certo entusiasmo. Il supermegagruppone, infatti, era timonato da alcune delle menti di spicco che si celavano dietro gli Unitopia, per cui avrebbe potuto dare seguito al progetto che avva dato luce a capolavori indiscussi come “The garden”. “Fall in Love with the World” aveva però smentito questa speranza di continuità, ma si era comunque distinto per essere un gran bel disco (anche se forse allora ci eravamo sbilanciati forse un po’ troppo nel tesserne le lodi). Sempre allora, ci eravamo chiesti “se, dati gli elementi coinvolti ed i loro molteplici impegni, il progetto United Progressive Fraternity si fregerà di ulteriori (ed ovviamente appassionanti) capitoli discografici”.

Ecco, oggi quel nuovo episodio è arrivato. È pure parecchio appassionato. Ma, a voler essere sinceri, il risultato è piuttosto lontano da quello che avremmo voluto. “Planetary Overload – Part 1 – Loss” è un album che parla chiaro fin dal titolo. Ovviamente tratta il problema della difesa dell’ambiente e la necessità di porre rimedio al surriscaldamento globale. Nobile e condivisibile intento, tema problematico e da sempre molto caro al mondo del progressive. Eppure trattato in maniera, come dire, retorica, ma proprio quella retorica ottantiana da “We are the World” e simili.

Il problema, il limite primo di questo album sono infatti i testi. Cantati in un inglese perfetto, che proprio basta masticare un po’ la lingua di Shakespeare e capisci l’80 per cento delle liriche al primo ascolto e pure facendo altro. I testi, dicevamo, sono di una banalità sconcertante. Sono esattamente quei soliti slogan che sentiamo in continuazione (di nuovo) dagli anni ottanta. Potremmo aprire una parentesi sul fatto che se li sentiamo da quarant’anni ci sarà il suo motivo, ma lasciamo stare.

Detto ciò, va riconosciuto che le liriche non bastano a decretare un fiasco. Partendo dal punto di vista di chi scrive, il fatto di non condividere una singola parola cantata da Neal Morse non impedisce di apprezzarne i dischi. Ancora, un “Wall street woodoo” (di Roine Stolt), che pure tratta una tematica trita (leggi fame nel mondo), ha comunque dei testi un po’ più sottili, ed è accompagnato da un ottima base di progressive jazzoso.

Tornando “Planetary Overload – Part 1 – Loss” per arrivare alla musica ci si mette un po’. Questo perché l’economia del lavoro è totalmente subordinata alle liriche. Liriche che, oltre ad essere già note, vengono proposte con le linee metriche più banali possibili, quelli che trovi nelle canzoni pop come nel death metal. In questo modo le linee metriche entrano in testa subito e a viva forza, per contro la musica pare un pastone informe. E in effetti un po’ lo è. Possiamo notare, di certo, un aumento delle ritmiche tribali. Ascoltando bene, comunque, si nota bene che a livello musicale gli UPF non si allontanano molto da quanto già fatto sentire “Fall in Love with the World”, però… È come se tutto l’album fosse una lunga jam session provata un po’ di volte e poi messa insieme e strutturata progressivamente. Insomma, l’idea è quella di un sottofondo messo lì giusto a far da contorno alle liriche rimane. Un sottofondo molto saporito e colorato, forse troppo. E ciò è dovuto ad un motivo fisiologico.

Gli UPF infatti già sono un bel po’. E parecchi sono pure multistrumentisti. In questo loro episodio però ci sono anche popo’ di ospiti: da Steve Hackett a Hasse Froberg (Flower Kings) pare che tutti abbiano voluto far sentire il loro impegno. Il risultato è dover gestire decine di guest musician (9 di formazione, 38 ospiti e un coro!), relegandone diversi a mere voci narranti e piazzando quanti più strumenti possibili qua e la. Una bella mossa, per gestire una simile folla, sarebbe stata coinvolgere Arjen Lucassen e farlo caporeparto per le risorse umane. Ma Lucassen non c’è e ricordando i suoi problemi a gestire ‘appena’ 15 cantanti, dubitiamo che si sarebbe mai anche solo voluto imbarcare in questa avventura. 

Nel vedere quella immane trafila di ospiti, anche d’alto profilo, era stato facile lasciarsi trascinare dall’entusiasmo, e ciò vale soprattutto per i prog-lovers incalliti. Il risultato che ci si trova davanti è però, sfortunatamente deludente. Solitamente in questi casi, in cui dei maestri steccano in maniera un po’ grossolana, è lecito sperare in una pronta ripresa. Il problema è che questo è un “Part 1”. Speriamo di essere smentiti.

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