Recensione: Senjutsu

Di Redazione - 1 Settembre 2021 - 17:58
Senjutsu
Band: Iron Maiden
Etichetta: Parlophone Records
Genere: Heavy 
Anno: 2021
Nazione:
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80

Piaccia o meno, nel 2021, un nuovo album degli Iron Maiden è ancora un evento culturale a livello globale. La band catalizza ancora l’attenzione in modo “totale” come poche altre band di Heavy Metal possono permettersi. Nel 2021, appunto, i Maiden non possono essere i più forti, i più veloci o i più abrasivi, ma questi old-boys inglesi rimangono il “gold standard” di come spudoratamente la musica heavy sia ancora in grado di competere contro i grandi nomi di successo sia del pop che del rap che di qualsiasi altra forma musicale vada per la maggiore. Naturalmente, non potranno mai essere di nuovo ferocemente innovativi com’erano negli anni ’80, fatto sta che, grazie alle canzoni presenti nel nuovo doppio album, sono riusciti a mettere maggiormente a fuoco le ottime intuizioni espresse nel precedente ed acclamato “The Book of Souls”, ma non solo! Voglio dire, un nuovo disco dei Maiden smorza l’attenzione sul 90% delle altre uscite discografiche, evidenziando come la band, prima ancora di essere musicisti e compositori, sia un elemento stimolatore dei naturali pensieri dell’ascoltatore di musica distorta! “Senjutsu” (tattiche di combattimento) è un album di alto profilo, studiato e lavorato a lungo! Vanta un’anima profonda che sconvolge i sensi di ogni ascoltatore, esemplificando divinamente la magia che contraddistingue, da sempre, quasi ogni lavoro della band inglese. Ogni traccia racconta una storia diversa in modo assolutamente esauriente, grazie a melodie variegate che ti fanno entrare in paesaggi a volte fantastici a volte storici, descritti attraverso le parole di Bruce Dickinson, un Bruce, devo dire, in forma smagliante! L’ascolto dell’opera non è da intendersi come superficiale e/o sbrigativa, anzi, tutt’altro, “Senjutsu” necessita di svariati ascolti (specialmente per la monumentale triade finale ad opera del solo Harris) per essere assimilato e metabolizzato a dovere.

Introdotta dai tamburi di guerra di Nicko, la title-track apre le ostilità con una chiamata alle armi per difendere dall’invasione del nemico ciò che si ha di più caro. Brano per certi versi sperimentale e atipico per i Maiden, non la solita sacra opener dal fare sculettante a cui tutti siamo da anni abituati. Qui siamo al cospetto di qualcosa di diverso, che col passare dei minuti cresce enormemente d’intensità. Molti fans storceranno il naso ad un primo ascolto, ma risentendola, non esisteranno a volerla a tutti i costi come brano d’apertura nei prossimi attesissimi concerti della band. Questa canzone “non ha un ritmo” e “non detta il ritmo”, è solo un giro continuo insistente di tamburi che si alternano al cantato maestoso di Bruce, unitamente a sezioni soliste dei tre fenomeni della sei corde. La canzone, nonostante i suoi 8 e più minuti, volge al termine in un batter d’occhio con un assordante boato. Il muro ha ceduto, fuoco e fiamme…tutto è perso! Un azzardo scegliere un brano simile ad aprire il nuovo album? Si, sicuramente, ma ai Maiden piacciono le sfide, l’avevamo capito. Fuori a metà luglio e – come ben sappiamo – preceduto dal volantino del Belshazzar’s Feast (“rain or shine”, etc….) “The Writing On The Wall” – classico specchietto per le allodole – è una discreta composizione, ma nulla più. Sta lì, alla posizione numero tre! “The Writing” è unicamente servita per colmare il lungo gap tra i sei anni di tempo intercorsi dall’ultimo nato in studio degli inglesi con i suoi devoti fans. Il brano è atipico per i Maiden, ed in assoluto il meno HEAVY METAL dell’intera proposta. E’ un buon pezzo? SI se preso singolarmente. NO se confrontato con il resto del materiale di un album di spessore come questo. In Inghilterra direbbero: ‘’No fish – no flesh’’, ma non per questo il brano in questione va ad inficiare negativamente il risultato finale. La band, dopo il brano d’apertura, si è presa un ulteriore rischio con questo primo estratto, non c’è che dire! La cosa migliore è sicuramente è il video animato che ne ha accompagnato l’uscita, il quale mi ha riportato alla mente il classico film d’animazione HEAVY METAL di Gerald Potterton del lontano 1981. Se la band avesse voluto puntare su un singolo (nell’eccezione pura del significato leggi ‘’Wasted Years’’) l’Eddie samurai in copertina avrebbe avuto a disposizione frecce migliori da tendere al suo arco. In tal senso vanno inquadrate sia “Days Of Future Past” (che vedremo tra poco) e soprattutto “Stratego”, secondo episodio del lotto che già conoscete da un paio di settimane. Classica cavalcata 100% maideniana che ai fans piacerà parecchio, specie dal vivo!

Come accade nell’inferno dantesco, ma mano che si prosegue nell’ascolto del disco ci si inoltra in un viaggio musicalmente pericoloso ma altamente spettacolare e gratificante. Ecco dunque giungere “Lost In A Lost World”, prima delle quattro lunghe fatiche ad opera del solo Steve Harris, giustamente separata a distanza dalle tre finali per non appesantire l’ascolto. Primo lungo intro acustico con tastiere in bell’evidenza sulle quali emergono cori a sostegno che possono ricordare (lontanamente) alcuni arrangiamenti propri dei lavori degli Uriah Heep, prima della partenza ‘in battere’ del brano vero e proprio. Si viaggia su coordinate assai familiari, già sentite su “Brave New World”. È esplicativa in tal senso “Out Of The Silent Planet”. Trattasi di pura epica hard rock/progressiva e ci si muove a vista in questo brano con i suoi ultra-collaudati metodi. Si ha buon gioco a riconoscere in quest’estetica le rotonde melodie di basso di Harris, e in quelle chitarre veloci e arpeggiate ritroviamo anche le familiari grida da crepuscolo provenienti direttamente dal millenovecentonovanta (anno più, anno meno, vi risparmio i soliti accostamenti) che i fans conoscono bene.

‘’Days Of Future Past’’ si contrappone direttamente a ‘’Stratego’’ su quale brano – tra i due – sarebbe stato più indicato scegliere come singolo (voto per entrambi) tale o effettivo.
Il riff sparato fuori dalle corde della chitarra di Adrian Smith è molto buono se non fosse stato preso in prestito (non ho detto rubato, per carità) da quella ‘’Antisocial’’ di casa Trust francesi, per giunta ri-arrangiata e fatta propria sul finire della decade ottantiana dai newyorkesi Anthrax. Brano tirato e tutto dritto con Dickinson alle prese con un ritornello impegnativo, ma (per una volta almeno) facilmente memorizzabile sin dal primo ascolto. Questa è 100% musica Metal, punto! Su “The Time Machine” lo scontro tra progressivo e metallico è tangibile e continua imperterrito! Questo è un brano dinamico – impervio – divertente e ricco dei suoi saliscendi improvvisi, intercalati da una marcetta stile cavalleria dell’esercito prussiano inserita su un tappeto sonoro power-metal trapuntato di variegati fraseggi solisti di squisita fattura. L’andatura dev’essere piaciuta particolarmente a Nicko, dato che viene intervallata e ripetuta per ben due volte. Dickinson ce la mette tutta cantando: ‘’I’m not a preacher – I’m not a mad” (‘’non sono un predicatore – non sono un pazzo’’) per un brano elegante e melodico, dove la band insegna a più di una generazione di songwriters come scrivere canzoni difficili, ma allo stesso tempo accattivanti e dall’appeal mostruoso. I Maiden del 2021 non sono affatto gli stessi musicisti di sei anni fa, il loro stile si è ulteriormente affinato e con esso anche il loro palato. Ecco perché hanno ancora la capacità di farci gustare puliti ricami melodici che conducono per mano la struggente e melanconica penombra di “Darkest Hour”, introdotta dallo stridere dei gabbiani e dal rumore delle onde del mare. ‘’Darkest Hour’’ ha qualcosa di poetico che quasi imbarazza per il suo struggente crescendo melodrammatico. Un brano che deve molto al cantato di Bruce, che sfiora la perfezione dai tempi del sul suo album solista “The Chemical Wedding”. Semplicemente stupenda la parte delle chitarre soliste, realmente da togliere il fiato. Ritornano le onde, ritornano anche i gabbiani, si chiude il cerchio e la canzone finisce così com’era iniziata. La collocazione di una semi-ballad a questo punto dell’album ha una sua logica, ed è da intendersi un po’ come…ecco, si…la quiete prima della tempesta. Passiamo ora al piatto forte della portata, le tre epiche scritte da Harris, poste a suggello finale del disco, un po’ come venivano sigillate con la ceralacca (in tempi antichi) le lettere dei nobili e dei potenti. C’è un uso importante di tappeti di tastiere che donano maggior enfasi all’epicità delle canzoni in cui vengono narrate delle storie importanti con un inizio ed una fine ben precisa. La struttura è molto simile tra loro, musicalmente, però, non sono neanche lontane parenti. Hanno tutte e tre un inizio acustico, uno successivo sviluppo oscuro e/o dannatamente heavy e un ritorno dell’inizio del brano in chiusura. Esteriormente in linea con quanto ascoltato anni fa con “The Clansman” presente su quel “Virtual XI”, dopo il primo stacco secco, “Death Of The Celts” rimanda direttamente a “To Tame A Land(Dune) da “Piece Of Mind” (1983), prima dell’inizio della vera battaglia svolta e condotta dai tre maestri della sei corde maideniani. Si tratta di una vera guerra di assoli! Dickinson perde la scena per circa sei minuti (si, avete letto bene), per poi riconquistarla nel lungo e sentito finale. Come per il precedente brano dimenticate del tutto ritornelli da cantare a squarciagola, non ce ne sono neppure in “The Parchment”! Brano questo, dall’andatura mistica e orientaleggiante (ad alcuni di voi potrà ricordare il “Bolero” di Ravel) unitamente ad un tocco atmosferico e magico dei Rainbow con Dio (“Stargazer” e “Gates Of Babylon” riaffiorano alla mente). Anche qui impazzano i duelli chitarristici, dove ogni chitarrista vanta il suo assolo personale. Questo brano, pur se lungo, è un puro orgasmo titanico per chi ama incondizionatamente l’epicità musicale della band inglese. Dopo la pioggia di assoli il ritmo sale d’intensità e si incomincia a viaggiare a velocità leggermente più sostenuta (non è una speed song – ok? – ma si sente il netto cambio di marcia), fino ad arrivare ad un accenno del tanto sospirato ‘ooohhhhh-ohhhh-ohhhh’ da far cantare al pubblico a squarciagola. Si torna al reprise d’inizio brano che conclude quest’ennesimo lungo capitolo. “Hell On Earth” è quella – tra il triumvirato composto di Harris – maggiormente ‘accessibile’ e vive di tre parti (se non addirittura quattro considerato il solito intro-acustico) ben distinte e portate a formare un’unica canzone. La partenza iniziale di questa classica cavalcata è scandita come per le precedenti dal rullante di Nicko, che ci trasporta lontano come se fossimo a bordo di un veliero che batte bandiera nera e in compagnia di un’euforica masnada di pirati, tanta è l’euforia sprigionata dalla melodia nella prima parte. I toni cambiano immediatamente subito dopo l’oscura parte recitata di Bruce (pare una preghiera, non ho ancora i testi) e sembra condurre la canzone verso la fine. Niente di più sbagliato! Terzo capitolo e parte quella che personalmente ritengo sia la magnificenza compositiva assoluta toccata dalla band su tutto “Senjustu”. Ancora assoli su assoli incrociati come nella migliore tradizione N.W.O.B.H.M. caratterizzano la song, con Dickinson che accentua il tono del dramma con un ‘’non ritornello’’ ripetuto parecchie volte su un ritmo – non veloce – ma decisamente sostenuto! Ok! L’album è finito ed è stato un lungo viaggio, un viaggio ricco di sfumature a volte calde come la sabbia del deserto a volte gelide come le onde del mare d’inverno. Più volte mi sono dovuto fermare (e lo farete anche voi) per riascoltare passaggi incredibili, arpeggi mirabolanti con intrecci bellissimi tra chitarra e basso unitamente ai soliti assoli realmente ‘out of this world’’ da parte di quei tre fenomeni. Insomma, son passati 80 minuti e non c’è stato un solo momento di stanca nell’ascolto del disco. Questa volta i Maiden si sono davvero superati a dimostrazione del fatto che siano ancora in grado di trattare con maestria la musica più dura, al fine di creare il vuoto cosmico dietro loro. In un magma di dolci progressioni e sferzate poderose, la band prosegue il suo viaggio esplorativo dei lidi più introspettivi del suo stile musicale, uno stile unico ancora oggi. E mentre i ragazzi lavorano tanto ampliando i loro orizzonti, ci consegnano così un prodotto affascinante, diversificato e ricco di contrapposizioni. Coglierne le molte sfaccettature sarà impegnativo, ma sicuramente arricchirà il vostro percorso di crescita musicale. Al fine, tutto sembra essere un perfetto compromesso tra una grandezza trascendentale e un’infantile, fresca, spensieratezza divenuta col tempo ineffabile saggezza compositiva. Tanto mestiere, la capacità di entusiasmare chi fa del classico heavy metal sound la sua religione e la solita passione mista a cocciutaggine nel portare avanti la propria visione della musica; questo possono garantirvi gli Iron Maiden versione 2021. Vi basta?
Come scriverà qualcuno tra 20/25 anni: “Era il 3 settembre del 2021 e usciva “Senjutsu”. Il resto è Storia!”
Up The Irons!

Luke Bosio

Voto 90


L’uscita di un nuovo album degli Iron Maiden è un evento planetario. Paragonabile, per portata e potenza mediatica, all’elezione di un nuovo Papa, per la schiera di fedeli sparsi per il globo terracqueo. Ed è con la stessa incrollabile fede, che i fan della Vergine di Ferro attendono spasmodicamente ogni nuovo capitolo di una leggenda che ha avuto inizio nel lontano 1980, all’indomani dell’uscita del primo omonimo album, e che presto si troveranno a fare i conti con “Senjutsu”, datato 2021. Non tutti gli adepti, però, si approcciano alla novità con il medesimo spirito. Del resto, da allora, il mondo della musica pesante (e non solo) è cambiata radicalmente: dal modo di fruirne, al modo di comporla e registrarla; dall’impressionante numero di gruppi che ogni giorno propongono le proprie composizioni a potenziali fan e addetti ai lavori, cercando di emergere da un mare di mediocrità e pressappochismo, alla sempre più ampia proposta di sottogeneri musicali, tra nuove frontiere e ibridazioni di sorta. Ben 41 anni sono passati da “Iron Maiden”. Un’eternità, per qualcuno. Più di una vita, per molti dei più giovani che magari gli Iron li hanno scoperti con “Brave New World” (2000) oppure con “The Final Frontier” (2010). Di sicuro, abbastanza per far sì che non siano più i giovani virgulti di allora, tesi a rendere il mondo il proprio parco divertimenti. Nonostante un’esistenza scevra da qualsiasi tipo di vizio per esplicita richiesta di Steve Harris, piena di iniziative e interessi, attività fisica in quantità e hobby vari, il tempo pretenderà sempre, prima o poi, il proprio, spietato prezzo. Con questa inevitabile consapevolezza, occorre accingersi all’ascolto di ogni singolo nuovo parto della mente di questa straordinaria icona dell’Heavy Metal. Ci sarà sempre chi li amerà a prescindere, comprerà il loro dischi a scatola chiusa e li seguirà sempre dal vivo, finendo per assuefarsi anche agli episodi meno ispirati, e chi ormai continuerà a considerarli un gruppo finito dal 1988, a essere buoni, salvo poi ascoltarli comunque – e ci mancherebbe altro – lontano da occhi indiscreti…

Senjutsu o Seppuku? Questo è il problema. Citando in parte scuotilancia, aleggia sull’album, riflettendo sul minutaggio altissimo, un punto di domanda che si colloca tra il significato della parola giapponese del lavoro (tattica o strategia di guerra) e il ben più famoso suicidio che consiste nel trapassarsi il ventre da una parte all’altra.

Che i Nostri siano ancora i numeri uno però, specie a livello di marketing (assieme ai Metallica) è stato ampiamente dimostrato dal tam tam mediatico generato dal mistero sul poster di Belshazzar’s Feast. Qualche maglietta distribuita a vari colleghi – tra i quali Scott Ian degli Anthrax – e il resto lo hanno fatto i fan stessi, facendo crescere in maniera spropositata l’hype per il bel video (evidenti i richiami al film d’animazione “Heavy Metal”) di ‘The Writing On The Wall’. Un brano in realtà piuttosto atipico per gli standard dei nostri, dal flavour southern/folk che in qualche contorto modo può riportare alla mente certe sonorità dei Thin Lizzy. Quasi a voler stoppare le voci su un possibile cambio di rotta, qualche settimana dopo è arrivata invece ‘Stratego’. La più classica delle cavalcate di Harris, ritornello di facile presa permeato da una certa epicità e una sezione centrale strumentale evocativa. Quello che lascia un po’ perplessi è la scelta di doppiare spudoratamente la voce di Dickinson con la chitarra durante la strofa e purtroppo non è un fatto isolato nel corso della tracklist.

La produzione, sempre ad opera di Kevin Shirley, offre dei suoni che non graffiano e hanno poco mordente. Probabilmente per colpa della ricerca di sonorità che richiamino l’atmosfera live e della conseguente registrazione in presa diretta, che finisce per penalizzare le tre chitarre della band e non solo. Sfidiamo chiunque a distinguere perfettamente le loro linee, quando spesso si tribola a sentirne bene anche solo due. Inoltre, i ritmi di McBrain e dello stesso Harris non sono più straripanti e imprevedibili ma molto canonici e inoffensivi. A questo, però, siamo ormai abituati dal lontano “Brave New World”, almeno. Se per il primo estratto una seziona ritmica del genere si sposa maggiormente, su ‘Stratego’ il gap anagrafico è evidente.

Fortunatamente, l’album registrato ormai due anni fa e custodito gelosamente in qualche luogo sicuro (qualcuno ha detto Kirk Hammett?) ha ancora diverse frecce al suo arco e preso nel suo complesso riesce ad avere un amalgama unico, dando un senso di compiutezza a due anteprime che parevano slegate tra di loro. Anche i suoni scelti finiscono per essere apprezzabili in diversi episodi. Uno su tutti ‘The Time Machine’, grazie a una poderosa chitarra a metà brano che fa balzare sulla sedia. E qui, inconfondibile il tocco di Janick Gers, coautore anche di ‘Stratego’. Tuttavia la sensazione di lotti di brani divisi in base all’autore, rimane. ‘Stratego’ e ‘The Time Machine’, infatti, quasi si contrappongono ai brani a firma Smith/Dickinson. La già citata ‘The Writing On The Wall’, ‘Days Of Future Past’, più diretta e immediata, e ‘Darkest Hour’, che si propone tra gli highlight dell’album e riporta alla mente certe soluzioni del Dickinson solista di “Balls To Picasso”. Infine il blocco – termine tutt’altro che casuale – di pezzi scritti da Steve Harris. Ben quattro tracce, le più lunghe e sperimentali del disco, che rispondono al titolo di ‘Lost In A Lost World’, ‘Death Of The Celts’, ‘The Parchment’ e ‘Hell On Earth’. La prima è un mid tempo roccioso, che a metà brano, circa, rimanda agli intrecci e armonizzazioni tipiche, qui davvero, dei Thin Lizzy più arcigni. ‘Death Of The Celts’ è tra i brani più progressivi del lotto ed ha pure dei buonissimi intrecci di chitarre al suo interno. Saltabile però il lungo intro, che fa il paio con quello della conclusiva ‘Hell On Earth’. ‘Senjutsu’ è probabilmente l’unico brano a esulare da questa logica anagrafica ferrea. Perché è forse anche il brano che meno ti aspetti e perché effettivamente è a firma Smith/Harris, unica nel suo genere. Ha un andamento solenne, quasi marziale nel suo incedere più controllato. Niente opener á la ‘Be Quick Or Be Dead’, tanto per capirsi. Si chiude poi con un bel finale epico che però non basta a sollevare un brano a cui un po’ più di dinamica avrebbe giovato. L’impressione che lascia questa “svolta prog” degli ultimi album è che spesso ci si ritrovi davanti brani poco snelliti e allungati all’inverosimile, con molte buonissime idee che un semplice dono della sintesi avrebbe potuto rendere grandiose. La parte strumentale di ‘The Parchment’, ad esempio, è infinita e strapperà con buone probabilità qualche sbadiglio: parte bene, diventa arabeggiante poi si dilata in maniera inspiegabile e arriva la solita chitarra che va pari pari con Bruce, cosa che, come detto prima, risulta ancora una volta irritante. Peccato, perché il brano in sé pareva ispirato.

In conclusione, fumata bianca o nera? Senjutsu o Seppuku? Ebbene, ci ritroviamo al cospetto di una band che ha superato abbondantemente i sessanta come età media e che pare in crescita, sebbene lontana dai fasti passati. Se paragoniamo “Senjutsu” a “The Book Of Souls”, troviamo un album più vario e ispirato. A maggior ragione se paragonato a “The Final Frontier”. In crescita anche le quotazioni di Bruce Dickinson, che sembra essersi finalmente lasciato alle spalle tutti i problemi fisici. La sensazione dominante è che con un maggiore snellimento dei brani e, in generale, dei suoni migliori (che sia giunta l’ora di un cambio in regia?), il diciassettesimo disco degli Iron Maiden sarebbe stato in grado di sbaragliare gran parte della discografia post-reunion con Dickinson. Chi ritiene che l’unica dimensione reale della band ormai possa essere solo quella live probabilmente non cambierà idea, ma potrà godere dal vivo di una band in netto miglioramento.

Orso Comellini

Voto 70

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