Recensione: The Diary

Di Roberto Gelmi - 30 Marzo 2015 - 10:00
The Diary
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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75

Il polistrumentista Arjen Anthony Lucassen, prossimo ai cinquantacinque anni, dopo l’album solista Lost in the New Real (2012) e il rilancio del progetto Ayreon con il successo The Theory of Everything (2013), torna in scena con un progetto parallelo tutt’altro che minore. Il re Mida olandese possiede, infatti, una naturale predisposizione all’eclettismo e in particolar modo trova naturale confrontarsi con le voci più variegate, non ultime quelle femminili. Archiviato l’exploit targato Ambeon (e relativa reissue del 2011), lanciato il talento di Marcela Bovio (Stream Of Passion), è la volta di riallacciare i rapporti con la connazionale Anneke van Giersbergen (sublime esponente dei Forever in 01011001), per regalare ai fan un doppio album dall’indiscussa originalità.
Il tutto riproponendo, mutatis mutandis, il dualismo intrinseco di The Universal Migrator (dove, nell’album soft, Anneke interpretava una giovane maya), ossia la schizofrenia tra dimensione unplugged e metal.
In questo caso non c’è il solito parterre stellato di cantanti, ma l’unicità del progetto The Gentle Storm (soprassediamo alla banalità del moniker) sta nella centralità di Anneke, magnetica e fatata interprete di atmosfere dalla sognante sprezzatura. Sì, perché l’ugola della ex-The Gathering non s’impone certo per potenza o incredibili capacità tecniche, bensì per il tono dimesso e al contempo sempre fresco e pulito di un approccio vocale “piatto” solo in apparenza. Occorre aggiungere, infine, che la purezza del suo canto è riflesso della sua indole di vita, positiva e ottimista, come leggiamo in una recente intervista tradotta su TM.
Il risultato, sul fronte gentle, è un’ora di musica classificabile lato sensu come folk e non pare fuori luogo citare i Blackmore’s Night come utile termine di paragone. La versione storm, invece, se ascoltata rigorosamente senza soluzione di continuità con il primo disco, risulta una vera sorpresa, che accontenterà i metallari affezionati al sound più duro degli Ayreon. Scontato dirlo, ma la dialettica che si crea tra i due platter fa sì che entrambi guadagnino punti se reciprocamente paragonati (gli arrangiamenti sono differenti e notare le differenze stimola la curiosità d’ascolto e di comparazione). Sia ben chiaro, non è vietato, tuttavia, ascoltarli in separata sede, quasi fossero due album a sé stanti.
The Diary, inoltre, ha tutte le carte in regola per essere, qual è, un album curato nei minimi dettagli, pur non essendo un capolavoro. A partire da un artwork raffinato che rende il clima avvolgente del disco gentle ed esemplifica l’ambientazione del concept, che si svolge terra marique (i Paesi Bassi, inutile dirlo, hanno un rapporto ontologico con il mare). Tutto è ambientato nel XVI secolo, aurea aetas olandese (chi non conosce mostri sacri come Spinoza, Rembrandt, Vermeer e Huygens?), periodo successore del Rinascimento italiano (qualcuno ricorda il progetto Leonardo con LaBrie?) e del Siglo de Oro spagnolo-portoghese. Il Seicento vide, infatti, imporsi a livello internazionale, economicamente e culturalmente, i Paesi Bassi, che dopo essersi emancipati dal giogo spagnolo, puntarono su di un’accorta e lungimirante politica coloniale.
L’album narra, nella fattispecie, la storia d’amore tra i giovani Joseph Warwijck, ufficiale della Compagnia delle Indie Olandese, e Susanne Vermeer, interpretata da Anneke. La coppia appena sposatasi si vedrà separata dal viaggio, lungo più di due anni, che dovrà intraprendere Joseph, fino in India, con relativi attriti con la nemica marina inglese. Unico mezzo per tenersi in contatto sono le lettere che i due coniugi si scrivono regolarmente, ma che arrivano a destinazione in tempi lunghissimi. A complicare le cose c’è la nascita del figlio Michiel e la malattia di Susanne. Non andiamo oltre, si è già anticipato troppo della trama. Basti dire che nell’epilogo della vicenda non manca un bel finale aperto e un rimando all’attualità: Arjen tiene al fatto di dare un senso alla tradizione, così come è sempre stata sensata la sua visionarietà sci-fi.

Venendo, ora, alle fasi d’ideazione e registrazione (durate più di un anno), Lucassen ammette di aver lavorato metodicamente, componendo ogni singola melodia, strumento per strumento, in modo da vagliare quelle migliori e poi assommarle. Ha chiamato a raccolta un coro allargato, un contrabbasso e un corno francese. Inoltre non mancano strumenti esotici, più di quaranta, per realizzare un mosaico di sonorità il più possibile variegato e completo. Ultima curiosità, in tale sfoggio d’inventiva, nel cd gentle non hanno trovato spazio, incredibile dictu, le tastiere e l’amato Hammond (nonostante il reclutamento dell’ex-After Forever Joost van den Broek).
L’esito complessivo non è niente di sensazionale, ma gli arrangiamenti sono ben curati e cristallini; il concept, poi, conferisce maggiore densità al prodotto finale, che in definitiva risulta essere un affresco sincero dell’identità olandese, diafano e poetico come in un quadro del già citato Vermeer.

Vediamo brevemente la tracklist, corposa, ma che evita la prolissità dei doppi album targati Ayreon, permettendoci salti tra le due versioni dell’album.
L’opener “Endless Sea” è un pezzo godibilissimo, sia nella versione gentle sia in quella storm. Cullante e narrativa la prima, supponente ed “Epica” la seconda. Ottimo il trattamento dei fiati, mentre il guitarwork è di evidente riconoscibilità per l’amore di tutti i fan di Arjen (l’apporto di Merel Bechtold, in forze ai MaYaN, è, inoltre, valore aggiunto).
Si prosegue con la vera hit del platter, “Heart of Amsterdam, basata su un tema arzigogolato nelle sue modulazioni, ma orecchiabile, con tinte jazzy sul versante soft, e momenti davvero tirati sul lato metal (a partire dal vincente attacco in levare con chitarre droppate e il basso pulsante di Johan van Stratum, tra i membri fondatori degli Stream Of Passion). I duelli violino-flauto, violino-chitarra sono una goduria assoluta, forse l’apice dell’intero album. Il relativo video, invece, è inguardabile.
The Greatest Love”, nella versione gentle assomiglia a tracce degli Ayreon quali “Comatose”, e regala un altro buon ritornello, giusto un po’ sottotono. La composizione qualitativamente non guadagna punti nella versione storm. “Shores of India”, invece, riporta il platter su livelli notevoli, merito di arrangiamenti etnici dal sicuro impatto che trasmettono la giusta dose di esoticità, tra spezie, colori e afa monsonica. D’altra parte, a pensarci bene, non è mai stata estranea agli Ayreon una vena araboide, che ha donato ulteriore eclettismo al sound di Arjen. Buon filler, ma niente più, la successiva “Cape Of Storm”, tra sciabordii di onde e andamento lineare. Ancora fiati in apertura di “The Moment”, ballad sognante con seconda parte folk; i violini sono imprescindibili, anche nella versione storm, che regala un ottimo crescendo in finale di brano.
Senza un attimo di respiro è la volta di “The Storm”, altra traccia rappresentativa del progetto TGS. Nella versione gentle le parti di pianoforte regalano emozioni, l’alternativa storm rimanda a certa pomposità dei connazionali Epica. Di nuovo folk per “Eyes of Michiel”, ninna nanna dal minutaggio breve, con un intro caratteristico di archi; in questo caso la versione strong vince il confronto con quella gentle. Tinte soffuse e spazzole jazz per “Brightest light”, traccia poco ficcante, non fosse per il timbro caldo e avvolgente di Anneke che si sposa in modo perfetto con gli arrangiamenti gentle. Graffiante, invece, la versione storm, con atmosfere epiche e trascinanti (il drumwork di Ed Warby è come sempre icastico).
Siamo in dirittura d’arrivo. “New Horizons” presenta una prima parte mesta e strappalacrime, poi segue un crescendo ritemprante che prelude a un Epilogo di nuovo per mare, al suon di squilla, con ripresa circolare del leitmotiv in apertura d’album. Queste due ultime tracce risultano meno anonime nella versione storm, che, considerata complessivamente, non presenta brusche cadute di stile.

Ci si può dire soddisfatti dall’ascolto di The Diary, senza per questo gridare al capolavoro. Le melodie scorrono fluenti e i vari strumenti messi in campo creano le giuste tinte d’epoca, tra sprazzi di musica celtica e folk. Chi ha avuto la fortuna di vedere recentemente Anneke in tour in Italia, non potrà farsi scappare il debutto dei The Gentle Storm. I fan della saga Ayreon nemmeno, ma The Diary può mirare a un pubblico più variegato, soprattutto vista la facile fruibiilità della versione gentle del disco. Ringraziamo, dunque, per l’ennesima prova di creatività il maestro olandese e speriamo in future collaborazioni dagli esiti altrettanto felici.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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