Recensione: The Pagan Manifesto

Di Marco Migliorelli - 29 Ottobre 2014 - 9:14
The Pagan Manifesto
Band: Elvenking
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2014
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
85

“Fermati”. Ed è come quando nella veglia che va mimando il sonno, si hanno, come alle volte accade, visioni d’immagine per qualche istante nitida, quasi reale e coerente nella sua incollocabilità. La mano che una figura incappucciata rivolge a noi prelude all’enigma della sua identità tanto quanto è incontrovertibile il segno che rappresenta:

“Fermati”. E ascolta,  perché sarà voce quello che poi racconterai, o andrai cantando. Davanti alla figura sta una pietra altare di indubbia fattura precristiana, il richiamo è ad origini pagane che soggiacciono alla maggioranza dei culti: il rito di passaggio, l’iniziazione.

Questa la cover di Pagan Manifesto, anno 2014, ‘Elvenking‘, scritto fra le due lanterne, quasi ai piedi della figura senza volto. Album di veglia che non prelude al sonno ma a quella lunga serie d’immagini inspiegabilmente nitide e la cui nitidezza ha il sapore dell’illusione, indotto dalla loro stessa brevità. A poco vale l’intensa percezione ma molto vale la musica se è sua intenzione fissarne le suggestioni nel racconto, nel canto, nell’epos “menestrellare” del metallo tanto quanto nella corda gentile del Trovatore, del Ramingo.

L’Errante il cui volto non si rivela, dunque. Chi sarà non ci è dato dirlo con certezza, immaginarlo probabilmente, è quanto ci viene richiesto. Intuirne l’identità non è comunque enigma di difficile soluzione, tutto sta nel leggere il testo.

Un testo in apertura al disco, figlio di un brano insolitamente lungo se paragonato al taglio medio delle canzoni dei Bardi italiani nelle loro ultime uscite:

Listen o ye my old friend / Hear my songs echoing out through the archways of the elms…

fermati e ascoltami:

Abduction, subversion, deep inside, a wild commotion/  No more at war with all that’s said and done, I have finally/  conquered salvation – and my own liberation/  Now the time has come, and my path undone…/ With tears in my eyes, I now follow my heritage/ I have been crowned the new Elvenking

King of the Elves apre con oltre 10 minuti di musica ininterrotta, dai ritmi serrati fin da subito. La quiete sublunare della consueta intro narrativa composta di suoni, richiami animali e altre allusioni boschive che sarebbero cari al Landolfi suggestivo de “La Pietra Lunare”, viene spezzata dall’esplosione di batteria di Symhon.  Canto del ritorno e della smentita, il brano è un vero e proprio rito del rinnovamento musicale.

Rito perché non v’è nulla di nuovo in quanto proposto, rinnovamento perché quel che torna da un passato a noi caro è capace dell’antico entusiasmo, del gioco frizzante col minutaggio che non si allunga per contratto quanto per spontanei bisogni narrativi, per un amore della coralità ariosa come della scabrosità dei vocalizzi harsh, più sporchi. Il risultato è un brano lungo, forte, compatto e narrativo in cui le parole che da sempre si danno con generosità nei lavori più ricchi ed elaborati dei nostri.

In un punto a metà della canzone il richiamo strumentale al passato è fortissimo, voluto e se interpretato alla luce del testo  rafforza l’idea del rito di passaggio e del rinnovamento. Manifesto forse vuol significare questo: attestazione, messaggio alla platea, ai delusi, ai dubbiosi, così come ai più ottimisti che li seguono da anni con curiosità e interesse.

Lasciamo al generoso novero della opinioni personali il giudizio sull’atipico coro di apertura del brano, ostico inizialmente, salvo poi spiccare curiosamente come giusta parte del tutto dopo diversi ascolti, per soffermarci su un’altra osservazione random che qualche mese addietro ho colto in rete: ho letto che questo brano sarebbe una scimmiottatura di Avantasia. Magari! magari Sammet scrivesse ancora brani come questo lungo o anche solo metà di quanto fu Seven Angels. Senza cattiveria per carità, ma il paragone, se mai è da farsi, va posto in positivo e a vantaggio della suggestiva presenza di Amanda Sommerville.

Il Re Elfo è dunque tornato, ed è e non è lo stesso al contempo. Resta il simbolo, si è rinnovato il gruppo. Su tutti pende l’eredità di oltre un decennio di buona, buonissima musica che non ingabbia in griglie e forzature ma anzi si è data ai “nuovi” come materia ancora viva da plasmare e rendere viva. Non ci spiegheremmo altrimenti la libertà di Raphael, già da anni chitarra “libera” con Aydan; o la libertà di Symhon che su Era, come qui ipotizzato allora, scaldava soltanto le pelli pronto ad esplodere del tutto più avanti, quest’anno. Sul violino è invece inutile spendersi. Fugate le annose e ormai degne d’annali osservazioni su una sua assenza; sta lì, preziosissima attestazione del “cor gentile” dei signori dalla landa del vin bianco; insieme ad una sezione acustica, dipanata per oltre un’ora di musica, lungo tutti i brani e mai a riempire.

Potremmo chiudere qui, privarci del gusto di passare ancora qualche minuto insieme a dire del disco ma allora cos’è che stride? … la silente marea rossa; La veglia d’Inverno…ERA! spesso titolature che alludono alle raccolte poetiche dei Romantici o ad alcune suggestioni dei pittori preraffaelliti, quando non alla migliore fiaba (Grimm, Ende).

E poi Pagan Manifesto. Se ne intende la ragione programmatica ma non se ne digerisce, almeno in questa sede, l’algida imponenza. Che i nostri non abbiano ceduto ad una fredda esposizione della propria musica è chiaro fin dalla prima manciata di secondi ma è anche vero che per tutta l’estate, più il disco cresceva con gli ascolti più avvertivo l’estraneità del titolo. Questione oziosa? probabile, ma a chi non ha mai guardato ai testi come a un contorno impersonale per le proprie creazioni strumentali mi sento di dirlo con la bonarietà di un vecchio compare, qualcosa da dirsi col sorriso fra un guizzo di violino ed un accenno di chitarra.

Six bards – one of a kind/  OH – OH We dance on the witches’ night/  Music and spirit/  for the outcast brotherhood/  Six bards – one for all/  OH – OH the Elven family

mi pare di udirla qui la risposta, alchimia della leggerezza, “dal sangue proveniamo per ritrovarci nella pietra”. Chi non ricorda l’acustica “From blood to stone”?  il passaggio di stato, dall’imponenza drammatica e pur sempre ariosa della lunga opener all’approccio anthemico  della breve e trascinante Elvenlegions.

Il brano è identitario, da palco; qui emerge immancabilmente “il bambino interiore”, il ludo coinvolgente che tocca le corde dell’allegria e della partecipazione. Non è un caso che segua come seconda song del lotto. Controcanto all’altra anima, quella del “bardo”, Elvenlegions completa il non breve quadro introduttivo del disco e sfocia nel “noi e voi”. Cori brevi in risposta a Damnagoras sono quelli della brigata schierata in ordine sparso eppur serrata. La batteria preme dai lati e accorpa, unisce.

Ci chiedevamo, “manifesto ma di cosa?”. Non aspettatevi, e come potreste?, una serie programmatica di esemplari vicende pagane così come si dipana la bibliografia di un qualche esame universitario al dipartimento di antropologia o storia delle religioni.

Qui si parla di racconti, introspezione di parole che si inseguono come in un sogno di una notte di mezza estate e di più semplici verba, che parlano ai cuori semplici, spesso i migliori.

Batteria tribale, quasi e violino come una litania, questo introduce The druid ritual of Oak. Damnagoras,  che ha qui completato e amalgamato definitivamente timbriche rock e metal inizia il primo di una serie di racconti.

Forgive me Father for all that I have sinned,/  For all the times I tried to be a follower within/  Forgive me Mother, / sweet Earth where I have lived/  The Beauty I’ve mantled, the pureness of your kin

4 minuti ed un ritornello ficcante. Il conflitto fra una fede spontanea e l’imposizione di un credo istituzionale? nulla di così stereotipo. No.

Il racconto di un bambino, che assiste per la prima volta ad un rituale di passaggio delle stagioni, in autunno, fra le querce sotto una luce di pallida piena luna.

La vene menestrellare, dopo lo sfogo anthemico è intatta; torna fra gustose linee di basso, controcanti di Damna, un’attitudine vincente al ritornello per una canzone che, e lo dico in corsa, senza soffermarmi troppo in paludose analisi, bilancia la propensione al folk power con cadenze menestrellari sempre vive, capaci di spezzare il ritmo della monotonia e salvare la batteria dall’incubo dell’eterno ritorno caro a tanto noioso “power”: la sindrome da doppia cassa.

Già, vi starete chiedendo, che tipo di disco è Pagan Manifesto? dobbiamo sorbirci ancora una volta il racconto di tutte le canzoni prima di capirlo? decisamente, NO.

Voglio citare il parere di un compare letto mesi addietro, prima della parentesi estiva, all’indomani dell’uscita del disco: “Pagan Manifesto è forse il disco più power degliElvenking”.

Mi sento di dargli ragione per un motivo preciso: “non è così”.

Ecco il punto. Pagan Manifesto NON è un disco power nella misura in cui ce lo potremmo aspettare senza batter un sopracciglio e smuovere di un mm la mimica facciale. Non è un disco power come certe ultime uscite dei Gamma Ray, o come gli ultimi fiacchi tentativi dei (cari, amati) Grave Digger o come lo sono i nuovi Iced Earth.

Non è un disco stanco. Anche quando si abbandona un tantino in più a qualche ritornello di troppo, non si ha mai la sensazione sgradevole del filler.  Parleremo semmai di una propensione individuale dei gusti per cui ad esempio chi scrive qui preferisce una Moonbeam stone circle ad una Pagan revolution, quest’ultima anthemica trascinante e breve valanga sonora perfettamente a suo agio sul palco e posta a circa metà disco per quell’alchimia di sostanze leggere e pesanti che deve mantenere “aereo” il disco, fluttuante, mai fiaccante.

Moonbeam Stone Circle invece interessa maggiormente in questa sede, perché si riannoda al discorso: “è power perché NON lo è”.

Atipica e carambolante a due minuti dalla sua conclusione, prima della chitarristica follia, mentre Damna sfocia nel recitato  e a Symhon pare gli sia stato detto: commenta quanto faremo secondo il tuo estro, il resto verrà.

Ode to Cerumnos. Recita wiki: “Nella mitologia celtica, Cernunnos era lo spirito divinizzato degli animali maschi cornuti, specialmente dei cervi, un dio della fecondità, degli animali e della natura selvaggia. Come “Dio Cornuto”, Cernunnos fu una delle numerose divinità simili presenti in molte culture antiche”.

Il Re Cervo era colui che veniva simbolicamente sacrificato nelle celebrazioni del rinnovamento della Terra. 

L’invocazione è diretta, il punto di vista non è più quello dello spettatore infantile ma dell’officiante. La musica non appiattisce il testo ma ne evidenza rilievi e profondità. La batteria incalza e rasenta il blast beats. La base tradizionale di canzone power tirata viene spezzata ripetutamente da intrusioni “d’altro genere”, figlie di una batteria malandrina ma salvata, in nome di una armonia complessiva da ritornello e cori. Fino al ruggito quasi animale in cui si muta la voce. Identificazione panica?

 

Anteprima

 

Siamo a metà ed all’inizio di un brano che il basso di Jakob rende suadente. Riaffiora potente il sapore di “Era” per le linee vocali-corali ed i ritmi più lenti nonché il duetto tradizionale fra voce sporca e cantato pulito. La lirica si fa più intima e il testo nella sua mancanza di referenzialità stretta punta al cuore di ciascuno per vie più personali.

Di sapore carico, indubbiamente, e finale ruvido, fuori controllo, si arriva a Towards the Shores in un filo di voce. Diremo allora di una ballata folk a tutti gli effetti. Un ritorno alla semplicità orientato, con occhio innamorato, al clima di Two Poets Tragedy. Aydan e Damna s’abbandonano alla resina che cala lentamente sulla corteccia con un brano apparentemente essenziale, tradizionale nella sua struttura e delicato.

Al quieto affiatamento degli strumenti coinvolti (magia d’un flauto cui infonde vita Maurizio Cardullo), corrisponde la voce di Damnagoras che non ha mai nascosto il proprio cantato nel maelstrom degli strumenti, cercando sempre, diversamente, di stagliare la propria voce senza disdegnare il confronto diretto, in cui le linee vocali non vengono trascinate ma conducono a loro volta.

Per coppie di contrasti, che non sono poi altro che tronchi dai rami di molteplici sfumature, al giocoso baccanale di Pagan Revolution, segue il brano per chi scrive più drammatico del disco: Grandieris Funeral Pyre. Uno dei  più belli incastonati fra le due lunghe perle a inizio e fine di Pagan Manifesto.

C’è un cambio di tono in questa canzone su cui vale la pena soffermarsi. Il racconto magico cede, non regge al peso della drammaticità del narrato. Perché?

Perché non si elude il punto di vista scelto che è poi, tradotto fuor di metafora, la scelta fatta, il dado tratto oltre la misura delle due fatidiche sponde; son passi che si fanno col solo respirare a questo mondo:

Pagan I die, as a pagan I lived

dove non è importante l’attestazione storica della paganità, anche perché non siamo nel novero di quei dischi che si costruiscono, concettualmente, sul piano di ormai stereotipiche e noiose dicotomie, spesso figlie della finzione e non di una adesione a quanto si scrive e professa, no, quel che importa è la natura del messaggio: muoio così come sono vissuto e non nego gli sbagli, non nego le scelte. Tutto è parte di quel “come” sono vissuto.

Remoto l’organo annuncia la conclusione, la voce di Damna quando nel recitato è di quella propria di chi recita “a parte” rispetto alla scena principale sul palco, diremo “non più di questo mondo”.

Grandier fu un uomo di chiesa nei pressi di Loudon e fu messo a morte perché presunto in accordi col diavolo.

Storia nota che pretende dalla musica e dalla composizione testuale la propria chance di unicità. Testualmente questo accade con una spiegazione: “nella mia versione alternativa della storia Grandier non è un uomo di chiesa ma  a man equal to all, uguale dunque al ricco come al povero”.

Mi piace trovare qui, in questa manciata di quattro minuti quell’idea cara ad Aydan delle idee condensate in un minutaggio breve ed intenso.  Maturità di cantore si rivela nella strofa lunga, dal verso giocato sulla lunga sequenza di parole poste, quando non in rima, in giochi di assonanze interne. Un gioco di incastri che riscopriremo compatto e riuscito nella minisuite finale di 8 minuti. Il resto, al culmine della narrazione è un  solo di spicco, a cascata di Raphael a chiusura magistrale di un mid tempo che coniuga semplicità e ricchezza al fine di una ben affrescata drammaticità.

Twilight of the magic spezza la tensione drammatica riportando l’ascolto su un piano di superiore leggerezza; fin dal titolo è suggerita la natura del pezzo, questo sì, di puro power melodico, tirato, con profondo break medievale abbandonato a leggere percussioni e ad un bisbiglio prima della consueta ripresa. La sorpresa qui non deriva dalla natura in se stessa del brano, che strizza onorevolmente l’occhio alla migliore tradizione ma dalla personalità dell’esecuzione, dal modo di saper attingere al proprio vissuto quanto alla tradizione stessa senza smarrire la propria identità.

Ecco, diremo:  preferendo il suonare al mero eseguire; che poi significa curare il dettaglio invece che svolgere il compito secondo schemi accettati passivamente. Twilight of the magic allude sempre a quell’impostazione semiseria della band che senza prendersi sul serio, o per dirla col frasario da social, un tempo noto come bacino di nobili citazioni “indossando la maschera”, racconta la storia della propria musica, la propria verità (grazie Oscar Wilde), ad armi pari rispetto a più blasonati “nomaccioni” di fama internazionale; e guai a intendere questo e altri brani fuori di un’ottica simile, in calce al brano il riferimento a Walt Disney parla chiaro…lasciate che al giudizio e ai paragoni il bambino preferisca il sogno.  Il rischio sarebbe quello di smettere di godersi un’ora buona di musica  a vantaggio di più incerte e poco fruttuose strade.

Come tutti, anche chi scrive ha però  bisogno dei suoi piccoli riferimenti, contrariamente a quanto credono alcuni, il recensore non è un padre eterno e se c’è una cattedra in vista, ben vengano le accette degli Amon Amarth per farne legna da fuoco; considerate quindi con indulgenza se Black Roses for The Wicked One verrà ora presentato come il brano perfettamente in bilico fra il sound melodico e rock di Red Silent Tides e il multiforme Era. Non sorprende che l’autore sia Damnagoras, l’anima forse più  hard rock del gruppo.

Si ritorna ad Era perché a zompettare in mente è la collaborazione con J. Oliva che caratterizzò alcuni brani di quel disco (e coronò un piccolo grande sogno dei nostri Bardi). Compare un pianoforte e come se non bastasse, la strofa e il cantato si adeguano ad un indole più hard rock melodica, al gusto irresistibile per il ritornello e a partiture strumentali tributanti alla melodia.

Gli Elvenking  ad 2014 sono questo: un power che non è power, l’impossibilità di dar ascolto ad una propensione musicale senza tacerne altre che ormai dovremmo conoscere bene ed un equilibrismo fra ironia e gravità, fra rock melodico e più complesse soluzioni, che NON hanno alcuna intenzione di risolvere. Sia uno il fiume, molto gli affluenti.

Va da se che più di molte parole che qui potrebbero essere scritte, non v’è esperienza migliore di quella d’ascolto. Ascoltate Elvenlegions  e poi Witches Gather ad esempio, perla conclusiva di 8 minuti buoni.

Illustri gli ospiti coinvolti. Qualcuno ricorda Jarpen? la domanda è retorica, sarebbe poi offensivo porla alla Veille Garde, la vecchia guardia di coloro che seguono Elvenking dal 97 o giù di lì. Inconfondibile la corposità del suo growl e presenza cara per due ragioni. La prima è di natura musicale e denota una continuità che quel Re Elfo all’inizio incarna. La seconda è di natura umana: propria della natura “folk” è la caratteristica del ritrovarsi e qui chi è andato torna e ricompare negli anni come un vino buono il cui sapore non è quello del’aceto. Dieci, cento, mille di questi ritorni. Di queste compresenze.

E Witches Gather?

Excusatio non petita, accusatio manifesta. Scusa non richiesta, accusa manifesta.  Un brano lungo apre, altro lungo chiude. Otto minuti strutturati liricamente in un’alternanza di Quaestio (nel numero di 5, strofe) e Accusatio. Il racconto di un processo?

I versi della canzone si dilatano e stringono come una fisarmonica, secondo quanto detta il cantato. La voce di Damnagoras saltella fra rime e assonanze. Il growl di Jarpen va in sovrapporsi alla voce di Damnagoras fino all’esplosione del ritornello.  Sono antichi i sapori che riaffiorano mentre nelle cavità auricolari ci si chiede se si stia ascoltando una eco o la sua origine: probabilmente entrambe.

L’introduzione strumentale al brano, tra fiaba e coralità sentenziale inscena la storia nota, ruminata un po’ ovunque delle streghe ma come per Grandiers, l’imprevedibile della scelta è di lì a poco prossimo a manifestarsi.

“Ho scelto di presentare le streghe non come la letteratura tradizionale e successivamente il cinema come anche il teatro nella scena di apertura del Macbeth le hanno sempre descritte ma come donne libere…”..è il caso di dirlo, donne con “un cuore così bianco”, come non fu quello di Lady Macbeth.

We tried to come, we tried to show you the goodness of the stars/  …of the moon, but you failed miserably And we paid… we paid…/  We paid…

Un tragico conflitto di punti di vista che diventa scontro fra due intendimenti della civiltà e della natura del mondo piuttosto violento quando si supera la dimensione individuale. E il brano?

Riverberi di Dominhate forse? o una manciate di stelle soltanto? The Scythe, se proprio vogliamo chiamarlo in causa è sparsamente presente in questo brano ma non oltre una certa misura: la misura del taglio generale della canzone, ammiccante invece alle atmosfere di Heathenreel perché pur nelle tragicità della tematica, l’approccio resta malinconico e lontano dagli affreschi più claustrofobici di alcuni passaggi di The Scythe.

Il disco termina, non la musica se si è avuta cura di prendere l’edizione con due bonus tracks, che è poi quella che mi sento di consigliare. Due strumentali e due motivi: il primo per cui Maurizio Cardullo dei Folkstone, è già da Era una presenza acustica fedele, ricca, di spessore, eletto qui, dagli Elvenking, alfiere di quella componente folk sulla quale noi come loro non ci stanchiamo mai di insistere, purché le regole del gioco restino quelle che ci hanno accompagnato per questi oltre dieci anni.

Il secondo è l’estro “violinistico di Lethien” sul quale con Cyfarwydd  facciamo cadere l’ultimo raggio lunare, quello della conclusione, inevitabile e da qualcuno forse ardentemente attesa, a questo pugno di fogli gualciti a riguardo di The Pagan Manifesto.

L’album è uscito a fine maggio. Un’estate  intera è intercorsa fra paventati inizi, rielaborate conclusioni, periodi di ascolti massici e silenzi senza attesa, pur nell’attesa che si andava, inevitabile, caricando della necessità di una parabola finale, un pugno di parole a dire di questo ottavo album in casa Elvenking. Un disco longevo? la prova del tempo regge e si fonda sull’inevitabile rilievo personale delle preferenze, tutto dipende da come intendiamo l’ascolto di un disco, se a salti o se fruito in una sequenza unica, inappellabile. Il tasto skip è sicuramente in svantaggio rispetto al vecchio caro rewind; la tentazione di riascoltare alcuni delle migliori canzoni è indubbia.

Abbiamo innanzi un disco senza vere cadute, con momenti volutamente leggeri ben bilanciati da composizioni più ambiziose, compatte e ben riuscite che danno lezione e corda a tante stanche uscite  in ambito power negli ultimi anni.

Staffilata scontata ma d’obbligo: King of The Elves e Witches Gather valgono già da sole l’acquisto del disco. Sono forse, nella loro riuscita compiutezza, quegli elementi di raccordo di cui sentivamo un po’ la mancanza. La loro presenza fa apparire Era come un felice interludio a quello che è oggi The Pagan Manifesto.

Due lunghi brani dunque  a incastonare sette canzoni sono una cornice importante, ancor più rilevante se la loro qualità può ben reclamare due posti nel salone dei piccoli epilli firmati dai nostri Bardi. Definitivamente rilevante se fra queste due solide colonne portanti vanno a incunearsi canzoni come Grandiers Funeral Pyre, Moonbeam Stone Circle e The Druid Ritual of Oaks.

Qualcuno griderà ancora ad una mancanza di generale compattezza, eppure un filo conduttore c’è, ancora una volta e ben oltre il facilmente individuabile nodo tematico “The manifesto“.

Il segreto è abbandonarsi, alchimia di attenzione e rilascio antica come lo è..lo fu? il circolo delle stagioni, che fuori della sua pazzia odierna, ritrova nella musica e nel canto il rispetto dei propri tempi

We tried to come, we tried to show you the goodness of the stars/  …of the moon, but you failed miserably

..oppure no, non falliremo.

Non falliremo.

Buon ascolto.

 

Marco “Fleba il Fenicio” Migliorelli

 

 

Ultimi album di Elvenking

Era Era
Era
Band: Elvenking
Genere:
Anno: 2012
84
Band: Elvenking
Genere:
Anno: 2010
82