I Magazzini Generali di Milano ospitano la nuova calata italica degli Amon Amarth, combo svedese dedito ad un massiccio death metal dalle tematiche prettamente vichinghe, freschi del nuovo uscito “Surtur Rising”. L’affluenza di pubblico è notevole, il locale si riempie piuttosto presto anche per via dell’orario di apertura dei cancelli, avvenuto alle 19, e girando tra il pubblico non si fa certo fatica a capire che sono tutti lì per i titani svedesi, sebbene anche ai Black Dahlia Murder venga riservata una più che discreta accoglienza. Al momento del nostro arrivo questi ultimo hanno appena iniziato il loro spettacolo, quindi tuffiamoci subito nella calura dei Magazzini, ancora una volta segnalatisi per l’acustica non particolarmente soddisfacente ma diventati ormai un punto di riferimento importante per gli eventi metal ospitati a Milano.
Report a cura di Luca Trifilio.
Nonostante fossimo stati regolarmente accreditati per le foto, la sicurezza non ci ha permesso di accedere al pit per ragioni a noi ignote, pertanto ci scusiamo con i lettori per la mancanza della consueta galleria di immagini.
THE BLACK DAHLIA MURDER
Dal Michigan con furore e con la voglia di far fuoco e fiamme . L’intenzione di Trevor Strnad e soci risulta evidente fin dalle prime battute, e mantengono alta la tensione durante tutta la loro performance, accolta da una buona risposta e da un locale già praticamente pieno. Nel corso della quarantina di minuti a disposizione dei Black Dahlia Murder, tra anticipazioni dall’album in arrivo (“Moonlight Equilibrium”) e cavalli di battaglia assortiti (“What A Horrible Night To Have A Curse”, “Miasma”, “Funeral Thirst”), la band non risparmia energia e grinta nel tentativo di proporre al meglio la propria musica e di coinvolgere la platea, presente quasi esclusivamente per gli headliner a giudicare dalle magliette viste in giro, ma che non lesina applausi ed incitamenti anche per i BDM. Tuttavia, dei dubbi rimangono, e sono gli stessi che emergono ascoltando i loro album: i brani soffrono di scarso dinamismo ed inevitabilmente si finisce per confonderli tra di loro, aspetto che provoca qualche sbadiglio dopo i primi dieci minuti di concerto. Tuttavia, se di live si parla, non si può certo rimproverare a questi ragazzi di suonare male, anzi l’impatto è possente e nonostante i suoni male amalgamati e le chitarre impastate la performance nel complesso si è rivelata soddisfacente ed anche genuina.
Dagli Amon Amarth si sa perfettamente cosa aspettarsi.
Quando pochi minuti prima delle 21 i cinque svedesi si impossessano del palco dei Magazzini Generali, l’atmosfera è quella sovreccitata ed allegra che tante volte si respira ai concerti nei minuti immediatamente precedenti allo scatenarsi della tempesta di metallo.
I mastodontici vichinghi danno il via allo show con “War Of The Gods”, dall’impianto e dalla melodia tipicamente swedish. I suoni si dimostrano fin da subito non eccezionali né per definizione e pulizia né per mixaggio, con una prevalenza piuttosto netta dei bassi. A sentirsi invece molto bene è la voce di Johan Hegg, da subito in palla e che metterà in mostra, oltre ad un timbro notoriamente adatto alla proposta musicale della band, anche discrete doti da frontman: infatti, al termine di quasi ogni canzone le luci si spengono lasciando un riflettore puntato su di lui, che visibilmente divertito e soddisfatto interagisce col pubblico a volte coinvolgendolo – lanciandosi anche in qualche breve frase in italiano – altre semplicemente annunciando il titolo o il tema della canzone successiva.
La scaletta , pur cercando di abbracciare tutta la discografia della band, pesca a piene mani dagli ultimi due lavori e dal recentissimo “Surtur Rising” in particolare, con brani che sia stilisticamente sia a livello di impatto riescono ad integrarsi bene col resto della setlist. I suoni non ideali non riescono a togliere la potenza e l’onda d’urto portata on stage dai nostri, la cui presenza scenica è notevole. Performance rocciosa la loro, senza particolari sbavature e con un pubblico partecipe ed a tratti esaltato.
Tra gli highlights della serata vanno senza dubbio segnalate le ottime esecuzioni di “Varyags Of Miklagaard” e della festaiola “Guardians Of Asgaard”, la terremotante “Twilight Of The Thunder God” posta in apertura dell’encore ed ovviamente la conclusiva e coinvolgente “The Pursuit Of Vikings”, autentico cavallo di battaglia che ha visto un pubblico totalmente in preda all’esaltazione e chiamato ad intonare il ritornello durante un break di basso. Immancabile anche il windmill, il tipico movimento rotatorio della testa durante l’headbanging che crea appunto l’effetto di un mulino: fatto dai quattro elementi – ovviamente escluso il batterista – durante la conclusione del brano, è uno dei trademark che indubbiamente regalano ulteriore riconoscibilità ed impatto ai live degli Amon Amarth.
Su di loro rimane ben poco da dire: così come su disco, continuano a dimostrarsi granitici e quadrati, una band di livello che non fa certo dell’innovazione o del tentativo di evolversi il proprio punto di forza ma che riesce comunque a confezionare ottimi prodotti che, dal vivo, guadagnano molto in termini di impatto e di emotività. Avevo avuto l’opportunità di vederli cinque anni fa, in occasione dell’Evolution Festival del 2006, ma posso affermare di aver ritrovato una band più navigata e sciolta anche dal punto di vista dell’atteggiamento on stage, in particolare per via dell’interazione maggiore di Hegg col pubblico.
Per tutti questi motivi, pollice alto per i vichinghi del death metal.
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Init Club, Roma 20-05-2011
La prima volta non si scorda mai. Vale per qualsiasi cosa, di solito. Chissà se è stato così anche per questa prima calata sul suolo romano dei seminali deathster olandesi Pestilence. Dopo 25 anni di carriera, scorrazzando tra i generi più estremi del metal, nonchè salendo, nota dopo nota, fino a quella ristretta cima riservata alle cult band della scena, la creatura di Patrick Mameli, rigenerata dalle più recenti realizzazioni discografiche, si presenta carica della sua aura di leggenda e vogliosa di essere la protagonista di quella che si preannuncia una bellissima serata, sia per il clima estivo che si respira fuori dalle porte, che per il bill di tutto rispetto chiamato ad accompagnare gli headliner.
Foto e report a cura di Francesco Sorricaro
NAMELESS CRIME
Ben quattro gruppi si esibiranno prima dei Pestilence. I primi ad avere l'onere/onore di aprire, alle 20.00 in punto, una serata del genere, sono i napoletani Nameless Crime.
Autori di un heavy metal poderoso ma molto melodico e facile alle atmosfere plumbee, i ragazzi hanno fatto valere tutta la loro esperienza e professionalità in una situazione non facile, causa una sala che definire semi-vuota sarebbe un'eufemismo. Ciò nonostante, il gruppo non ha lesinato in presenza scenica, e soprattutto il frontman Dario Guarino si è sgolato e dimenato come un ossesso, interpretando al meglio alcuni tra i migliori brani della loro discografia, tra i quali spiccavano quelli dell'ottimo Modus Operandi, del 2010.
Davvero un esempio di dedizione alla causa.
1NE DAY
I triestini 1ne Day, personalmente, non sono riusciti a convincermi. Presentatisi con un face-painting variopinto a seconda di ogni singolo componente (cosa già vista fare agli americani Mudvayne) si sono presentati all'ancora sparutissimo pubblico dell'Init, con quell'atteggiamento anti-sociale che fece, a suo tempo, la fortuna degli Slipknot, dando vita ad uno spettacolo tutto sostanza e cattiveria di circostanza, che in nessun modo ha potuto fugare le facili associazioni mentali con la scena alternative metal di fine anni '90.
I brani, carichi di tonnellate di groove, sarebbero perfetti per smuovere le prime file di un festival super affollato, e tra loro spicca anche una Black Celebration (vecchio successo dei Depeche Mode) davvero particolare, rivisitata alla loro maniera, ma forse l'ambiente di questa serata non è calzato a dovere sulla loro proposta musicale.
CORPSEFUCKING ART
I Corpsefucking Art erano i beniamini di gran parte del pubblico presente. Romani, auto-ironici ed innamorati del gore, hanno scatenato a dovere la platea che, nel frattempo, si era andata riempiendosi.
Con la loro mascotte/serial killer in bella vista che, seduto tranquillamente sulle assi del palco, leggeva il giornale o teneva il tempo agitando le armi più varie nella mano destra, hanno dato vita (o sarebbe più giusto dire morte!) ad uno show energetico e truculento, snocciolando tutti i loro proiettili migliori. La formazione è apparsa affiatatissima e, guidata dal carisma di Claudio Carmenini, la cui vocalità da suino sgozzato si avvicina molto a quella di Niels Adams dei Prostitute Disfigurement, ha trascinato al pogo non poche persone assiepate sotto il palco. Il frontman non si è risparmiato nel muoversi a grandi falcate da un lato all'altro del palco, affiancandosi ai suoi chirurgici compagni che sfogavano tutta la brutalità del loro death metal in una serie di brani killer, il cui culmine è stato senz'altro l'acclamatissima ed ironica No Woman No Grind.
Ottimo spirito, suffragato da un songwriting più che buono, sulla scia delle realtà internazionali più affermate: l'ennesima conferma per i Corpsefucking Art.
ANTROPOFAGUS
Per quanto riguarda me, ma non solo, il ritorno sulla scena dei genovesi Antropofagus, autori di un unico, scintillante album nel 1999, No waste of flesh, è stata una delle cose più gradite degli ultimi anni.
La band di Meatgrinder, con una formazione completamente rinnovata rispetto al passato, ad eccezione ovviamente del chitarrista e fondatore, si presenta a Roma con nuova linfa e con un bagaglio di materiale nuovo da testare in concerto.
Essenziali e di poche parole, gli Antropofagus sono saliti sul palco sicuri dei propri mezzi e, senza badare troppo ai convenevoli, sono subito partiti forte con una delle nuove frecce in faretra: la distruttiva Eternity to Devour. Alla fine saranno ben cinque su otto i nuovi brani presentati, a testimonianza dell'estrema convinzione e fierezza del nuovo corso intrapreso. Tecnicamente inappuntabili, con un Meatgrinder assolutamente sugli scudi, con i suoi consueti fraseggi ad alto tasso di difficoltà, una sessione ritmica di tutto rispetto, nella quale spicca il promettente, nonchè giovanissimo, bassista Mike, e la certezza data dall'ugola oscura e profonda di Tya, i quattro genovesi hanno infiammato e stupito tutti con la precisione assoluta con cui sferravano le loro violente bordate sonore. In attesa solo del come-back ufficiale su disco, annunciato per la fine dell'anno, da questo show, si direbbe che la band non solo sia pronta, ma che non si sia mai fermata, vista anche la padronanza con cui i nuovi elementi danno fuoco a cavalli di battaglia come Recollections of Human Habits e Thick Putrefaction Stink.
La chiusura, affidata a Loving You in Decay ha fatto calare il sipario su un'esibizione convincente da parte del gruppo, grazie anche a pezzi che, seppur inediti per la maggior parte, sono riusciti a coinvolgere per la loro brutalità e stupire per la loro complessità: il marchio di fabbrica degli Antropofagus.
A discapito della vecchia foto posta sul manifesto della serata, i Pestilence si presentavano a questo tour con una sessione ritmica completamente diversa, composta dal virtuoso bassista Jeroen Paul Thesseling (già basso negli ultimi due album degli Obscura), che non tornava in line-up dai tempi di Spheres, ed il giovane Yuma Van Eekelen alla batteria.
L'atmosfera era già sufficientemente surriscaldata quando Patrick Mameli ed i suoi loschi compari si sono presentati sul palco sulle note di The Predication, intro del nuovo album Doctrine, uscito da pochi mesi per Mascot. L'immaginario scatenato dalla fisicità dei quattro è stato, bisogna dirlo, piuttosto scarno, ma ci ha pensato la musica sprigionata non appena impugnati gli strumenti a far calare subito un alone di magia nera sulla serata.
I quattro sono apparsi molto presi dall'atmosfera generale. Patrick, olandese ma di origini sarde, si è detto subito felicissimo di essere sceso finalmente nel sud dell'Italia, oltre che propenso, al più presto, ad organizzare delle date in Sicilia e naturalmente in Sardegna. L'audience, a queste parole, è letteralmente esplosa, tributando ripetuti applausi, oltre ad appellativi tipicamente italici e finanche in sardo, lingua astrusa per i più, ma che Mameli ha dimostrato di comprendere benissimo.
Parlando di musica: era ovvio che l'attesa fosse per una setlist cospicua e ricolma di vecchi classici; è avvenuto tutto l'opposto, invece: lo show è infatti durato un'ora scarsa, visto che, in tarda serata, nel medesimo locale, era già prevista una "fantastica" serata danzante con dj set e, come se non bastasse, la scaletta ha dato pure ampio spazio all'ultimo controverso album del gruppo (scelta quest'ultima che a me, personalmente, è sembrata non troppo indovinata, oltre che indigesta, più della brevità del concerto).
Per fortuna i Pestilence, nonostante qualche piccola sbavatura, in particolare del buon Patrick Uterwijk, dovuta più alla cattiva acustica sul palco che ad altro, sono sempre delle macchine da guerra; la voce del loro frontman graffia ancora come acido muriatico sulla pelle, e questo ha reso il tutto un po' più sopportabile.
E' quasi venuto giù il soffitto quando nella stanza sono tuonate le note di brani come Suspended Animation, The Secrecies of Horror o Mind Reflections. Meravigliosi quei tempi sinuosamente martellanti, quella malignità celata dietro ogni riff, che fanno accapponare la pelle di chi gode davvero per queste sonorità, e che hanno fatto la storia della parabola evolutiva dei Pestilence: dal thrash, al death, al technical death metal di Spheres.
Tra una sfuriata e l'altra, le chiacchiere di un inaspettatamente loquace Mameli hanno intrattenuto con grande esperienza il pubblico; gli argomenti sono stati i più disparati, dal tatuaggio fatto poche ore prima presso un noto studio romano, all'omaggio ad una delle sue band preferite, gli americani Master, cui dedica Absolution. Pezzi recenti come anche Salvation e Resurrection Macabre, unico encore scelto per la serata, nella foga della loro veste live sono riusciti anche a fare la loro porca figura; la ciliegina sulla torta è stato poi vederli suonare dal vivo a quel mostro di Thesseling il quale, nonostante il ciuffo improponibile, ha catalizzato l'attenzione di molti sul suo fretless, grazie alla perizia e la velocità con cui lo ha percosso per tutto il tempo, contribuendo a dare nuovo corpo a composizioni abbastanza piatte su disco.
La serata è stata organica e divertente, e segnali tipo l'annuncio di una grandissima sorpresa conclusiva, trasformatasi, dopo la breve uscita dal palco, nell'unico encore sopracitato, possono fare intuire che il protrarsi dell'orario e gli impegni già presi dal locale, abbiano costretto il gruppo ad un taglio ulteriore sulla setlist prestabilita. Alla fine, dunque, chi ha voluto ha dovuto considerare il proprio bicchiere mezzo pieno e consolarsi con una chiacchiera ed una foto con dei disponibilissimi ragazzi olandesi un po' cresciuti.
I Pestilence si sono dimostrati comunque una band in grande forma e andranno certamente rivisti in futuro, sperando sempre in quella grandissima sorpresa mai concessa....
Francesco 'Darkshine' Sorricaro
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Gradito ritorno in Italia per Steve Hackett e la sua Electric Band. A nemmeno un anno di distanza dall'ultima – eccezionale – apparizione risalente al Summer Rock Festival dello scorso agosto, il celebre chitarrista britannico ha infatti deciso di regalare ai suoi fan ben tre date sparse tra nord e centro della penisola, nell'ordine a Milano, Bologna e Roma. Per l'occasione abbiamo seguito il secondo dei tre show in programma, svoltosi in un locale come l'Estragon che ormai, possiamo ben dirlo, può essere considerato una vera e propria garanzia.
Lorenzo Bacega
Report a cura di Lorenzo Bacega
Foto a cura di Angelo D'Acunto
Sono le 22:05 quando, con qualche minuto di ritardo sulla tabella di marcia, si spengono le luci dell'Estragon e ha inizio l'esibizione di Steve Hackett. Accolto in maniera assolutamente calorosa dallo sparuto (ma ugualmente rumoroso) pubblico bolognese assiepato all'interno del locale, lo storico chitarrista britannico, fresco di pubblicazione dell'ennesimo live album della carriera (intitolato Live Rails, dato alle stampe lo scorso aprile tramite InsideOut Records), si rivela sin dalle primissime battute in un ottimo stato di forma, pronto a intrattenere gli astanti con uno spettacolo oltremodo intenso e, come vedremo, prodigo di emozioni. L'apertura della setlist è di quelle che lasciano il segno: Valley of the Kings e Every Day – estratti rispettivamente da Watcher of the Skies – Genesis Revisited (1996) e da Spectral Mornings (1980) – possono sicuramente essere considerati due pezzi di altissimo livello, magistralmente interpretati dalla formazione capeggiata dal chitarrista ex-Genesis e capaci di scaldare come si deve gli spettatori.
Quella offerta dal sestetto inglese è una prestazione estremamente brillante e trascinante, supportata in questa occasione da suoni complessivamente puliti e ben bilanciati, nonché precisa al millimetro per quanto riguarda il profilo esecutivo. Ottimo in questo senso il lavoro svolto dalla sezione ritmica, costituita nello specifico dal bassista Nick Beggs – autore fra l'altro di un assai convincente assolo di chapman stick – e dal batterista/cantante Gary O'Toole, artefici entrambi di una prova assolutamente martellante e priva di evidenti sbavature. Il pubblico, dal canto suo, dimostra di gradire particolarmente lo show messo in piedi da Steve Hackett e soci, scatenandosi in interminabili applausi nelle pause tra una canzone e l'altra e lanciandosi in continue ovazioni. Scaletta discretamente bilanciata quella proposta nel corso della serata, prevalentemente orientata sull'ultima fatica del chitarrista britannico – intitolata Out of the Tunnel's Mouth, pubblicata lo scorso anno tramite InsideOut Records – dal quale vengono proposti brani quali Fire on the Moon, Emerald and Ash, Sleepers e Still Waters, ma che al tempo stesso non trascura la produzione meno recente, qui rappresentata da pezzi del calibro di The Golden Age of Steam (da Darktown, 1999), Sierra Quemada (proveniente da Guitar Noir, 1993), Ace of Wands e Shadow of the Hierophant (entrambe estratte da Voyage of the Acolyte, 1975); non mancano inoltre le “solite” cover dei Genesis tra le quali possiamo annoverare l'acustica Blood on the Rooftops, la melodica The Carpet Crawlers e un'intensissima Watcher of the Skies. Conclusione affidata come di consueto all'acclamatissima Firth of Fifth e a Clocks – The Angel of Mons (inframezzata da un ottimo assolo di batteria), che mettono la parola fine a uno spettacolo nel complesso oltremodo intenso e trascinante.
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Init Club, Roma 06-05-2011
Si era creata una grande attesa nella capitale per questa calata primaverile dei Voivod: seminale band di culto del thrash metal d’oltreoceano che, in tempi affatto sospetti, si era resa capace di reinventare questo genere così immediato e d’impatto con la sua particolarissima ricetta a base di fantascienza e ritmiche progressive.
All’Init si respirava sin dall’inizio della serata e, soprattutto, si leggeva sui volti di ogni età che si incontravano nella sala, quel senso di placida ma ansiosa attesa per quello che, per i più giovani come per i più navigati fanatici della scena, appariva come un piccolo grande evento.
Foto e report a cura di Francesco Sorricaro
Ad alleviare questa tensione ci hanno pensato i Black Land, doom metal band dalle tinte settantiane nata da una costola dei Doomraiser che, a Roma, ha giocato in casa. L’accentuata componente esoterica e gli inconfondibili riferimenti a diverse e notissime formazioni britanniche, che hanno dato origine al genere a cavallo tra i ’70 e gli ’80, hanno reso fin da subito palesi i gusti musicali dei quattro che, con innegabile bravura e carica coinvolgente hanno eseguito il proprio set composto da brani variegati e prolissi, raccogliendo l’apprezzamento del pubblico che non ha mai fatto mancare il suo plauso convinto.
Niente di nuovo sotto il sole ma la dimostrazione che mettere passione in quello che si fa paga sempre.
Dopo un breve cambio di palcoscenico, le sagome dei 4 canadesi sono apparse sulle assi portandosi dietro un carico di semplicità che deriva direttamente da un’altra epoca: zero sceneggiate, scenografia ridotta ad un semplice telone con il logo del gruppo disegnato dal batterista/artista Away e tanta gioia di suonare la propria musica davanti al proprio pubblico.
L’incedere barcollante del gigantesco, ghignante Snake è il marchio di fabbrica registrato per uno show che è partito subito forte con The Unknown Knows.
L’energia sprigionata da uno come Blacky sin dalla prima nota eseguita con il suo strumento è quanto di più coinvolgente abbia avuto modo di vedere durante un concerto, ed è stato solo l’incipit di una tempesta che sarebbe scemata solo a spettacolo ultimato.
La scaletta dei Voivod si è concentrata quasi interamente su classici del suo mai troppo celebrato passato: brani come Ripping Headaches, Ravenous Medicine, Nothingface, Forlorn, hanno dipinto uno spaccato stupendo della loro carriera, e sono stati eseguiti con la stessa ruvida e folle spensieratezza dei tempi d’oro, tra sorrisi ed ammiccamenti continui, pose divertenti ed occhiate compiaciute verso una platea che ha dato vita ad un perpetuo e turbinante pogo selvaggio, con tanto di stage-diving d’ordinanza. Alla sola Global Warning, tratta dal recente Infini, è spettato il compito di rappresentare la nuova produzione della band, quella "newstediana" che va dall’omonimo del 2003 in poi: un brano, scelto per la sua dinamicità, che dal vivo acquista punti rispetto ad una versione su disco un po’ piatta.
Quello che mi ha stupito ancora una volta, durante questo show, è stato come ormai Daniel “Chewy“ Mongrain, ottimo musicista nonché sostituto dell’indimenticato Denis “Piggy” D'Amour, sia entrato naturalmente nei meccanismi e nelle dinamiche del gruppo, fornendo non solo la propria indiscussa perizia tecnica nell’esecuzione di pezzi comunque non facili, ma anche cominciando a far valere la propria presenza scenica al pari degli altri. Da applausi la sua prova, in attesa di vederlo contribuire decisamente al songwriting dei prossimi lavori, dei quali un piccolo assaggio è stato fornito dalla scoppiettante Kaleidos, il sorprendente inedito regalato al pubblico di questo tour che, sinuoso ed ispirato, ha solleticato non poco il palato di tutti i presenti.
È stata Overreaction a chiudere momentaneamente lo spettacolo, offrendo una piccola pausa alle schiene martoriate in prima fila, mandando la band nel backstage per un paio di minuti. Il valore dei Voivod si misura anche dalle richieste da juke-box continue che si sono susseguite durante la serata, segno tangibile della compattezza di 30 anni di discografia, che non sono certo calate di intensità in questo breve intervallo; d’altronde la chiusura poteva essere tranquillamente immaginata, e non poteva che essere affidata all’inno Voivod. La grettezza e le ritmiche serrate di War and Pain, disco d’esordio dei nostri, hanno invaso in men che non si dica tutto l’Init, scatenando il putiferio, nonché l’urlo unanime dei fan durante il refrain. Away, con la sua consueta espressione ieratica, è stato una macchina perfetta dietro le sue pelli, anche quando, come se niente fosse, si è passati a Nuclear War, sempre tratta dal medesimo disco, che ha praticamente sbriciolato le residue inibizioni delle prime file, scatenando l’inferno, grazie anche alla direzione di un Blacky che sembrava pronto a tuffarsi dal palco da un momento all’altro (cosa che in realtà farà davvero al termine dello show).
Per concludere questa bella serata non poteva mancare l’omaggio sentito a Piggy, per il quale l’amico Snake, col suo vocione da grizzly, ha intonato un roboante coro, subito seguito a ruota da tutta la sala, prima che Chewy intonasse le prime note di Astronomy Domine con la sua chitarra.
La cover dei Pink Floyd, che oramai ha stabilmente indosso una seconda veste nella versione dei Voivod, con il suo sound psichedelico ed etereo sembra perfetta per lanciare un saluto a qualcuno nello spazio siderale e così è stato anche da Roma, quando lo spirito di Denis è parso quasi materializzarsi accanto ai suoi compagni, mentre Snake cambiava registro senza difficoltà sfoderando il suo tono più evocativo.
È terminato così il concerto romano dei Voivod, con un interminabile feedback assordante dopo un'intensa ora e mezzo di musica, con l’apprezzamento convinto di tutti i presenti e le facce soddisfatte dei canadesi, i quali si sarebbero trattenuti a lungo per rispondere alle domande curiose di chiunque, oltre che per le foto e gli autografi di rito.
I Voivod hanno saputo ripagare l’attesa di tutti coloro i quali, fin dal primo annuncio, avevano gioito all’idea di poter assistere ad una loro esibizione a Roma, e che hanno potuto vedere con i propri occhi quanto contino ancora, in un genere sempre più inquinato dal mainstream come l’heavy metal, la semplicità e la felicità di divertirsi a suonare dal vivo; aspetti che aveva sempre incarnato anche lo stesso Piggy, nel nome del quale speriamo di continuare a vedere questa band continuare così per tanti anni ancora a venire.
Francesco 'Darkshine' Sorricaro
Setlist dei Voivod
The Unknown Knows
The Prow
Ripping Headaches
Ravenous Medicine
Forlorn
Tribal Convictions
Global Warning
Experiment
Nothingface
Missing Sequences
Kaleidos
Overreaction
Voivod
Nuclear War
Astronomy Domine
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Evento dedicato completamente alle voci femminili quello andato in scena la sera del 30 aprile presso la Rock n'Roll Arena di Romagnano Sesia, locale, come già sottolineato in altre occasioni, divenuto in pochi mesi, punto di ritrovo affidabile e d’ottima qualità per il pubblico amante di rock e metal.
Voci femminili e gothic metal di radice sinfonica, un connubio di grande fascino e massima espressività, accolto da discreti consensi e riscontri da qualche anno anche nella nostra penisola.
Molte le giovani proposte sorte in tali ambiti, stimolate dal carisma di alcuni nomi di notevole rilevanza provenienti per lo più dalla scena nordica.
Le band inserite in scaletta in questa serata ne sono state una lampante dimostrazione: una coppia di emergenti tricolori ed un binomio di gruppi composti da professionisti di valore internazionale, hanno rappresentato un menù consistente per valori e qualità, in un crescendo di emozioni destinato ad innalzarsi ad alti livelli con l'esibizione degli headliner della manifestazione, gli ottimi Leaves' Eyes, band un po' norvegese ed un po' tedesca, guidata dall'elegantissima metal lady Liv Kristine, in compagnia dell'imponente ed iper tricotico marito Alex Krull.
Live Report a cura di Fabio Vellata
In leggero anticipo sulla tabella di marcia, i tendoni dell’arena si sono aperti per la prima volta nell’accogliere i giovani novaresi Lust For Oblivion.
Nato nel corso del 2006 e con un demo all’attivo pubblicato nel 2009, il gruppo piemontese ruota essenzialmente attorno alle figure dei due fondatori e menti principali, il tastierista Alex Mantovani e la cantante Chiara Tricarico, singer che un po’ ricorda, forse per la folta chioma rossa, la celebre Simone Simons degli Epica.
Fautori di un gothic metal piuttosto classico, animato da risvolti romantici ed orrorifici, parti declamatorie, sfuriate heavy e qualche momento orecchiabile, il quintetto di Novara si è prestato favorevolmente al ruolo d’apertura, pur mostrandosi ancora limitato nel confronto con i migliori esponenti della scena, da qualche piccola ingenuità di fondo. Complice un songwriting ancora un po’ derivativo ed impersonale, ad oggi non del tutto pronto a coinvolgere appieno gli ascoltatori, la proposta della band italiana lascia in ogni caso intravedere discrete potenzialità.
In possesso di buone doti di tipo strumentale e di qualche intuizione interessante, i Lust For Oblivion si sono resi protagonisti di un’esibizione breve ma dignitosa, offrendo una manciata di brani utili ad introdurre l’audience – al momento non ancora molto nutrita – nell’atmosfera della serata.
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Breve cambio di strumentazione e pochi minuti d’attesa, prima di proseguire nella scoperta della seconda formazione nostrana chiamata ad animare il palco della rock n’roll Arena: trascorse le ore 21.00 da qualche minuto, ecco in azione un’altra band piemontese, i biellesi My Black Light.
Forte di un contratto siglato di recente con la rinomata Massacre Records, il gruppo - fondato anche questa volta da singer e tastierista, rispettivamente Monica Primo e Rudy Coda Berretto – si prospetta ormai più come realtà effettiva che non come una semplice e banale promessa.
Ex cover band dei Within Temptation, il quintetto si rivela già piuttosto rodato e pronto nell’offrire una buona prestazione dal vivo, agevolato dall’ottima presenza della cantante e da una discreta fruibilità dei brani composti. Pezzi non certo rivoluzionari o dotati di particolari colpi di genio, tuttavia sufficienti al fine di accattivare con linee melodiche discretamente facili e varie, in virtù anche dell’utilizzo del sempre efficace contrasto tra growl maschile e gorgheggi da soprano.
Poco meno di tre quarti d’ora di buona levatura, conclusi con una coppia di cover probabilmente un poco fuori luogo per il tema della serata (le danzerecce “Maniac” di Michael Sembello e “Fame” di Irene Cara), per quanto decisamente efficaci ed utili a scaldare l’atmosfera.
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Quanto meno appropriato, arrivati sin qui, descrivere la serata in chiave classica, definendola come una sorta di “crescendo”. La sensazione, di una costante salita qualitativa, proporzionale all’avvicendarsi dei gruppi posti in cartellone, ha segnato, infatti, un’evidente linea di demarcazione con l’entrata in scena del primo dei due big previsti, i norvegesi Midnattsol, ottima band sinfonico-gotica guidata da miss Carmen Elise Espenaes, sorellina minore della blasonata ed irraggiungibile Liv Kristine.
Freschi autori di un nuovissimo album, intitolato “The Metamorphosis Melody” e con un nuovo innesto in line up, il chitarrista Matthias Schuler, il sestetto nordico ha guadagnato buoni consensi ed applausi da parte di un pubblico divenuto, mano a mano, sempre più numeroso e caldo.
Qualche problema nei volumi del microfono (voce per i primi tratti dell’esibizione, un po’ annegata dal resto degli strumenti), non ha per nulla scalfito grinta ed entusiasmo della biondissima singer, davvero dinamica ed assolutamente inarrestabile sul palco. Un vulcano d’energia che ha scatenato sin dalle prime battute le simpatie dei presenti, coinvolti dall’esuberante verve mostrata senza riserve un po’ da tutti i componenti dei Midnattsol.
In una setlist come ovvio, studiata con un occhio di riguardo per il nuovo platter, non sono mancati gli estratti dalle due precedenti uscite, “Where Twilight Dwells” e “Nordlys”, per un’ora abbondante di show caratterizzato da un’atmosfera calorosa e familiare - un clima quasi da festa celtica - in cui non sono mancate ovazioni per il chitarrista Alex Kautz e, in particolar modo, per l’ammirata bassista Birgit Öllbrunner, tanto brava quanto graziosa.
Una nota a margine va spesa inoltre, per la straordinaria disponibilità e gentilezza mostrata dal gruppo. Omaggi a profusione per il pubblico, strette di mano, sorrisi e cortesie davvero senza sosta prima, durante e dopo il concerto, hanno realmente offerto la prospettiva di come il sestetto viva ed interpreti - Carmen Espenaes in testa - la propria musica. Come una totale ed affettuosa condivisione con i propri fan, perno centrale e linfa imprescindibile della loro arte.
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Mentre eravamo ancora intenti nello scambiare convenevoli con i simpatici Midnattsol, ecco arrivare il momento più atteso dell’evento, quello destinato a portare all’attenzione della platea gli adorabili Leaves’ Eyes, band sorta da poco meno di un decennio e guidata dalla “principessa” nordica Liv Kristine in compagnia dell’enorme marito Alex Krull, frontman noto principalmente per la lunga militanza nei seminali Atrocity.
Anch’essi protagonisti di una nuova fatica discografica, “Meredead”, disco uscito in contemporanea con il nuovo capitolo targato Midnattsol, i Leaves’ Eyes non hanno tradito assolutamente le attese, sfornando una prestazione semplicemente straordinaria per intensità, verve, capacità di coinvolgimento, simpatia e vera e propria classe artistica.
Consueto look elegante e movenze da raffinata dea scandinava, la sempre affascinante Liv Kristine ha incantato l’uditorio, esibendo una voce a dir poco perfetta in ogni frangente per confermarsi ancora una volta, qualora fosse proprio necessario, come una delle massime esponenti del settore.
Come annunciato nella prima delle frequenti incursioni di Krull, personaggio tanto massiccio quanto affabile e divertente, la setlist del concerto è stata assestata per lo più sulle tracce del nuovo album, integrate con un costante avvicendarsi tra i vecchi classici della band.
Aperto da una coppia di brani provenienti dal recente “Meredead” - “Spirit’s Masquerade” ed il primo singolo, l’accattivante “Velvet Heart” - lo show è poi proseguito con estratti equamente suddivisi di “Lovelorn”, “Vinland Saga” e “Njord”, cui è andata ad aggiungersi l’inedita (in Italia) “Melusine”.
L’ascolto dal vivo di canzoni di notevole impatto quali “For Amelie”, “My Destiny”, “Farewell Proud Men”, “Elegy” e “Solemn Sea” ha più volte scaldato la platea, lasciando stampata sul viso dei partecipanti, un’espressione mista tra compiacimento ed ammirazione che bene ha potuto riassumere l’efficacia dello spettacolo ed il feeling instaurato con il pubblico.
In forma quanto la propria dolce metà, anche lo stesso Krull ha dato prova di grande sostanza, esibendo la grinta dei tempi migliori nelle parti a lui riservate, per poi lasciarsi andare a romantici ma mai stucchevoli duetti con Liv, compagna sul palco come nella vita, in un’istantanea che non poteva non ricordare – riassumendo la scena con un pizzico d’ironia – il classico e proverbiale “La Bella e La Bestia”.
Immancabili, data l’occasione, un paio d’infuocati duetti con la sorella Carmen - “Kråkevisa” e “Sigrlinn” – in cui poter costatare grande affiatamento “familiare” e la cover di Mike Oldfield “To France”, primo dei due encore previsti dalla scaletta.
Un’ora e mezza abbondante d’esibizione che ha colpito per efficacia e bravura dei singoli, trasmettendo sensazioni coinvolgenti che hanno amplificato, come già percepito con i Midnattsol, una piacevolissima atmosfera di complicità tra pubblico ed artisti. Un atteggiamento attraverso il quale azzerare le distanze tra fan e musicisti, che ha contribuito in maniera determinante alla piena riuscita dell’evento, terminato con tutti i componenti delle band principali – Midnattsol e Leaves’ Eyes – presenti sul palco a salutare la platea con applausi, inchini e strette di mano, in un clima ancora una volta, da grande festa conviviale.
Serata perfetta per valore, qualità dei nomi coinvolti e godibilità vera e propria della musica proposta. Unico rammarico per il sottoscritto, non aver potuto ascoltare la straordinaria "Njord", brano personalmente reputato tra i migliori prodotti sin qui dal gruppo tedesco-norvegese. Leaves’ Eyes e Midnattsol in ogni modo, potranno forse essere due nomi un po’ snobbati dal pubblico metal più intransigente per via di un eccesso di “romanticismo” presente nella loro musica. Questione di gusti.
Una loro esibizione dal vivo, rimane tuttavia una delle esperienze più piacevoli e gratificanti, ad oggi possibili in sede live.
Un’affermazione espressa con cognizione di causa: la serata del 30 aprile scorso, ne è stata brillante ed incontestabile conferma!
Setlist:
Spirit’s Masquerade
Velvet Heart
Ocean’s Way
My Destiny
Etain
Farewell Proud Men
Melusine
Empty Horizon
For Amelie
Froya’s Theme
Solemn Sea
Into Your Light
Take the Devil in me
Kakrevisa (duetto con Carmen Espenaes)
Elegy
Encore:
To France
Sigrlinn (duetto con Carmen Espenaes)
Mot Fjerne Land
Nel corso del tour di supporto al bellissimo Hisingen Blues, i Graveyard mettono a segno una toccata e fuga in Italia per esibirsi al Plettro Alternative Sound di Quero (BL). Truemetal era presente a quest'unica esibizione nel Belpaese.
Report e foto a cura di Massimo Ecchili
Muzzled
Il compito di iniziare a scaldare l'atmosfera tocca ai Muzzled, forti dell'uscita, nel corso del 2010, dell'album di debutto intitolato Reborn. Il quartetto trevigiano propone uno stoner rock con una smaccata componente psichedelica, con sonorità che abbracciano palesemente il rock più cupo degli anni settanta. Molto buono il settaggio dei suoni, la prestazione dei singoli e anche l'impatto globale è apprezzabile, grazie ad una buona confidenza col palco. In particolare va sottolineata la convincente prestazione del frontman Daniele, ben sorretto da una solida sezione ritmica.
Molto apprezzata soprattutto la cover finale di 21st Century Schizoid Man, leggendaria bandiera dei King Crimson di Robert Fripp, qui riproposta con personalità in chiave stoner.
Bleeding Eyes
Sono trevigiani anche i Bleeding Eyes, per la precisione di Montebelluna, band con un nome piuttosto conosciuto in zona. L'intensa attività live li ha già portati, in passato, a condividere il palco con band del calibro di Node e Behold... The Arctopus, destando interesse soprattutto tra gli appassionati di generi quali sludge e hardcore. Interesse successivamente confermato con l'uscita dell'EP One Less to My Last (2008, Shove Records).
Purtroppo i suoni piuttosto impastati e, soprattutto, lo scream del cantante Tez poco udibile, hanno compromesso la buona riuscita della comunque interessante esibizione. Da segnalare i riff cadenzati del bravo chitarrista Andrea Tocchetto, protagonista assoluto della scena.
Consigliati soprattutto ai fan dei primi Mastodon.
Graveyard
È già passata da parecchio tempo la mezzanotte quando gli headliner Graveyard salgono sul palco. Incuranti della scarsa affluenza di pubblico, immersi nella comunque calda atmosfera del locale, i quattro di Göteborg trovano immediatamente il giusto feeling, dimostrando di saper trasportare sul palco l'incredibile groove della loro musica. La scaletta spazia dall'omonimo disco d'esordio (2008) all'ultimo, bellissimo, Hisingen Blues, recentemente uscito sotto la sempre attenta Nuclear Blast. In tutto un'ora abbondante di hard rock venato di blues e psichedelia che sembra arrivare dritto dagli anni settanta. I suoni non sono affatto male, ma anche in questo caso non è tutto perfetto: la voce di Joakim Nilsson latita, coperta pressochè totalmente dagli strumenti. Poco male, visto che le ottime No Good, Mr. Holden e Hisingen Blues si fanno ugualmente apprezzare e confermano in pieno il fascino che hanno su disco. Al centro del palco il bassista Rikard Edlund (che per l'occasione sfoggia una t-shirt dei Pentagram) non si risparmia col suo Rickenbacker, mentre dietro di lui Axel Sjöberg si produce in un incessante headbanging ad accompagnare le innumerevoli rullate. Maiuscola la prestazione di Jonatan Ramm, preciso sia in veste di solista che in fase di accompagnamento. E' proprio la pioggia di riff delle due chitarre la marcia in più dei Graveyard, ma non solo per la quantità, anche, se non soprattutto, per la capacità di riproporre sonorità vintage senza per questo assomigliare smaccatamente a qualche grande nome del passato. La personalità degli svedesi esce prepotentemente allo scoperto soprattutto in brani più cadenzati come Unconfortably Numb e la bluesy The Siren, meravigliosa in sede live quanto su disco. Gli estratti dall'album d'esordio sono fatalmente meno conosciuti, ma destano ugualmente interesse soprattutto nelle versioni dal vivo, in particolar modo Satan's Finest e Thin Line. Peccato per la mancata esecuzione della southern Longing; pazienza, sarà per la prossima volta.
La serata, in definitiva, conferma tutto ciò che di buono si dice dei Graveyard, i quali, dimostrando personalità e attitudine, riescono magicamente a far tornare, mentre suonano, gli anni settanta. Partendo dagli strumenti per arrivare al suono e passando dal look, tutto ciò che riguarda i quattro svedesi sembra uscito dal decennio d'oro per eccellenza del rock, rendendo speciale la loro musica ed il fatto che, contro qualsiasi moda o tendenza, stiano riuscendo ad imporsi all'attenzione di pubblico e critica.
Lascia un po' di amaro in bocca vedere un locale già di per sè non enorme quale il Plettro Alternative Sound, ma vuoi per la scomoda posizione geografica (fossero stati a Milano o Bologna, solo per fare un paio di esempi, difficilmente si sarebbe visto un vuoto simile) vuoi per la scarsa attenzione che in Italia si dà a chi non è troppo conosciuto, è andata così.
Come spesso accade, il mondo si sta accorgendo di una band favolosa (vedere Billboard per credere), noi no.
Massimo Ecchili
Setlist:
No Good, Mr. Holden
Hisingen Blues
Lost In Confusion
Uncomfortably Numb
Satan's Finest
As the Years Pass by, the Hours Bend
Thin Line
Buying Truth (Tack & Förlåt)
The Siren Encore:
Blue Soul
Granny & Davis
Children of Bodom + Ensiferum + Machinae Supremacy
13/04/2011
Alcatraz – Milano
Report e foto a cura di Paolo Manzi
Machinae Supremacy
Serata tutta scandinava quella del 13 aprile all’Alcatraz di Milano, sfidando le torride temperature che l’anticiclone africano ha portato nel nostro paese, un trio d’eccezione composto dai compatrioti Children of Bodom ed Ensiferum, con l’aggiunta degli svedesi Machinae Supremacy, ha raggiunto il palco meneghino per portare una ventata di fresco heavy metal dal sapore nordico.
Ciascuna formazione, in particolar modo gli opener, porta un sound differente, frutto di quei differenti background musicali cui l’heavy metal consente di attingere.
Si parte quindi con gli svedesi Machinae Supremacy che purtroppo deludono le aspettative sin da subito. Due sono le cause principali: un sound che, cercando di andar troppo nell’alternativo, sfocia spesso nel banale e un vocalist (tale Robert Stjärnström) poco incisivo e decisamente statico. Delude inoltre sentire che in diverse songs la band si avvale di voci registrate che nonostante tutto non riescono a migliorare minimamente la performance vocale.
Ensiferum
Con l’uscita di scena del quintetto svedese fanno la loro comparsa stendardi e scudi, è il segnale che l’esibizione degli Ensiferum è alle porte.
I guerrieri finlandesi questa volta non hanno un album in promozione, l’ultimo “From Afar” risale ormai al 2009 mentre una nuova release è prevista per il 2012 (fine del mondo permettendo). La buona notizia è che la set list, tolto l’onere promozionale che incombe ad ogni tour, andrà a ripescare tutte le tappe discografiche proponendo i brani più significativi, in pratica una sorta di mini “best of…” in chiave live che si apre con la title track di “From Afar”.
Già dalle prime note si capisce di aver di fronte una formazione in piena forma che, complice senz’altro una scaletta ridotta, può permettersi di spingere a fondo il pedale per la gioia dei numerosissimi fans che acclamano e accompagnano Petri Lindroos e compagni ogni qualvolta la situazione lo richieda.
Con “Token of Time” e il suo alternarsi tra passaggi heavy ed innesti folk la band ci riporta ai tempi degli esordi e questo si rivela ancora una volta un pezzo adatto da proporre in sede live.
Non ci si dimentica certo del secondo studio album, da “Iron” vengono infatti ripescate e riproposte con una freschezza e vitalità tipica dell’act finnico “Into Battle” e la mitica “Lai Lai Hei” che ha fatto cantare tutto l’Alcatraz.
Una prova decisamente sopra le righe che lascia senza dubbio ben sperare per il futuro della band.
La strada per gli headliner è tutta in salita dopo l’esplosiva esibizione degli Ensiferum, sarà un’ardua prova per Alexi Laiho e compagni che spesso vengono tacciati di non essere una grande live band ma di limitarsi a portare a casa la sufficienza come dei bravi scolaretti.
Set List:
From Afar
Token of Time
Intobattle
Twilight Tavern
Guardians of Fate
Ahti
Lai lai Hei
Irma
Children of Bodom
Spezzando subito una lancia (meglio se non quella degli Ensiferum che potrebbero aver da ridire) a favore dei Bambini del lago Bodom, va detto che questa sera il quintetto va ben oltre il 6 politico.
Se si confrontano alcune passate esibizioni con quella della serata odierna troviamo parecchie migliorie. Una scenografia composta da lunghi stracci penzolanti dal soffitto conferisce al palco un’atmosfera e un clima alla “Mad Max”, non manca ovviamente il telone con il Falciatore, simbolo storico dei Children of Bodom.
L’apertura con “Not my Funeral” e “Bodom Beach Terror” spazza via ogni dubbio e scatena un vorticoso pogo che si espande fino ad inglobare buona parte del capiente Alcatraz.
L’esecuzione è perfetta anche se rimane sempre un po’ asettica soprattutto da parte di un frontman che non ha mai voluto lasciare ne voce ne chitarra. Non mancano ovviamente gli sputacchi da parte del buon Alexi che oramai è pronto per competere con un lama andino.
Si presegue con “Needled 24/7” e la tagliente “Ugly”, ovviamente sono i guitar solos a fare da padroni, anche se la perfetta esecuzione sarà probabilmente sfuggita ai più, impegnati a sopravvivere alla vorticosa centrifuga umana che non sembra voler rallentare.
Si toccano begli highlights con “Children of Bodom”, “Hate Me”, l’oscura “Follow the Reaper” e la violentissima “Downfall” che precede due encore “Was it Worth it?” e “Hate Crew Deathroll” magistralmente eseguite.
Se si escludono alcune casse “gracchianti” e dei suoni non sempre all’altezza possiamo parlare di un buon concerto, preciso e coinvolgente che ha visto un buon miglioramento in sede live dell’eclettico Alexi.
Set List:
Not My Funeral
Bodom Beach Terror
Needled 24/7
Ugly
Roundtrip to Hell and Back
In Your Face
Living Dead Beat
Children of Bodom
Hate Me!
Blooddrunk
Shovel Knockout
Follow the Reaper
Downfall
Was it Worth it?
Hate Crew Deathroll
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European Carnage Tour 2011, ovvero, si potrebbe dire: quando gallina vecchia fa buon brodo.
Attesissima la data romana dell’evento che vedeva insieme sullo stesso tabellone Slayer e Megadeth. Il sold out si registrava ormai da tempo per quello che poteva essere definito un “Big 2” o, a volerla dire tutta, un “Big 2 e 1/5” vista l’occasione più unica che rara di vedere, al fianco di Tom Araya e soci, il chitarrista di un’altra grandissima band che il thrash metal l’ha fondato: Gary Holt degli Exodus, che sta sostituendo, in questo periodo, il lungodegente Jeff Hanneman. Nessun sold-out invece a Padova dove, complice anche un minaccioso cielo da budera di pioggia, s'è radunato un buon numero di fan, molto ben ripagati da un concerto che ha visto gli Slayer completamente rinati e i Megadeth brillanti come sempre. Tante dunque le motivazioni che, nonostante il costo abbastanza elevato del biglietto, hanno portato davanti ai cancelli dell’Atlantico e del Teatro Tenda un pubblico (pagante ma non solo) impazzito per questi grandi nomi, ...ma questo in Italia non è mai stato una novità.
Per quanto riguarda la data tenutasi nella capitale, ci si è messo il fastidioso traffico domenicale della capitale (sembra assurdo ma esiste!), a far ritardare all’appuntamento il nostro Francesco che così s'è perso gli opener italiani della serata ma, non ce ne vogliano gli ottimi Sadist, che certamente avranno dato il meglio di sé come sempre.
Passiamo dunque al racconto delle serate.
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ROMA - Atlantico, "European Carnage Tour" - 3 aprile 2011
(Report e foto a cura di Francesco Sorricaro)
MEGADETH
In un’atmosfera di tripudio assoluto del pubblico, ancora memore dell’esibizione fantastica del giugno scorso, alle 20.20 in punto sono saliti sul palco, uno dopo l’altro, i Megadeth.
Apertura inconsueta affidata a Trust, direttamente da uno dei dischi più criticati dei ‘Deth, Cryptic Writings, ma si sa che un buon padre ama ogni suo figlio incondizionatamente e così Dave Mustaine, presentatosi sulle assi circondato dalla sua solita aura da santone del metal e con una fiammante Dean Double Neck, lo ha suonato con trasporto e passione seguito a ruota dai suoi compagni.
Tutto un altro clamore, però, ha accolto naturalmente la triade di classici che è seguita composta da: In My Darkest Hour, Hangar 18 e Wake Up Dead, con quest’ultima che acquistava anche un significato particolare, visto che si festeggiava il 25° anniversario di Peace Sells... But Who's Buying?. Per rievocare ancora una volta Rust in Peace, invece, è bastato a Dave l’aver sfoderato una scintillante chitarra con l’artwork del disco durante l’esecuzione terremotante di Hangar. 1320 è stato il primo poderoso estratto da Endgame e Poison Was the Cure ha celebrato ancora una volta il capolavoro del 1990, ma è solo al termine di una Sweating Bullets letteralmente urlata dall’intera sala, che Mustaine ha finalmente rivolto la parola ed il meritato saluto ai suoi fan. Tutto regolare per chi conosce il carattere del biondo crinito cantante il quale, comunque, è maestro nel saper compensare tutto con un carisma invidiabile; anche il fatto, purtroppo assodato pure in questa serata, che la sua voce è e sarà sempre a corrente alternata, salvo rari momenti di forma smagliante ma, si sa, l’età passa per tutti. She Wolf è dedicato alle “ragazze cattive” in sala, e così, dopo Head Crusher, si è arrivati presto ad un’altro grande atteso come A Tout le Monde.
La formazione attuale dei Megadeth, ormai affiatatissima intorno al suo leader, è apparsa concentrata e carica: Chris Broderick è sempre più spigliato e scorrazza da una parte all’altra del palco dispensando prove della sua eccellente tecnica (la fluidità delle sue dita sulla tastiera mi hanno fatto venire in mente i tempi in cui a duellare con Dave c’era un signore di nome Marty), mentre il buon vecchio David Ellefson, che con Shawn Drover costituisce una sessione ritmica a dir poco chirurgica, è il consueto volto rassicurante e carismatico, quello che era mancato davvero per il rilancio definitivo della band negli ultimi anni.
Accendini e cori d’altri tempi prima della tempesta finale. Symphony of Destruction non perde mai la sua malvagia ruvidezza ma è Peace Sells la più attesa stasera, come sembra sottolineare la presenza del solito Vic Rattlehead sul palco durante la sua anthemica e famosissima cavalcata finale che ha fatto tremare le pareti circostanti.
Alla breve fuoriuscita susseguente non ha creduto nessuno perché la voce roboante della platea non poteva non essere esaudita in questa serata. Il tenebroso momento storico che stiamo vivendo è sembrato rendere ancora più urgente l’esecuzione di un brano come Holy Wars... The Punishment Due; è lo stesso MegaDave a sottolinearlo lanciando retoricamente al pubblico la domanda: “ma che cazzo sta succedendo nel mondo!?!”. Il pezzo fu scritto per un periodo difficile in cui il mondo era attanagliato dalla paura; pochi avrebbero forse immaginato che un testo del genere avrebbe riacquistato una tale se non una maggiore valenza anche vent’anni dopo; forse anche per questo il gruppo l’ha suonata con tali carica e passione.
Una prova davvero energica quella dei Megadeth, usciti tra le acclamazioni convinte di un pubblico che, però, non è apparso affatto sazio. Prossimi a salire su quel palco sarebbero stati gli Slayer, la band musicalmente più malvagia del pianeta che, da queste parti, mancava ormai da tempo immemorabile.
Setlist: Trust
In My Darkest Hour
Hangar 18
Wake Up Dead
1320
Poison Was the Cure
Sweating Bullets
She Wolf
Head Crusher
A Tout le Monde
Symphony of Destruction
Peace Sells
Holy Wars... The Punishment Due
SLAYER
Bastava il muro di Marshall allestito come scenografia “attiva” dello show ad incutere timore ma, quando le luci si sono spente in sala, l’attesa si è trasformata in corrente ad alto voltaggio. World Painted Blood, titletrack dell’ultimo album in studio del gruppo, è stata la prescelta per aprire le danze, seguita a ruota da Hate Worldwide.
La presenza scenica dei quattro assassini è quanto di più imponente si possa immaginare: Tom Araya non potrà più roteare vorticosamente il suo scalpo come una volta, ma posso assicurare che la sua sagoma è bastata e avanzata per tenere in pugno l’audience romana.
Novità assoluta, già menzionata in precedenza, è la presenza di Gary Holt, chitarrista tra i più influenti della scena thrash metal americana, che non fa certo mistero della band cui appartiene da trent’anni, grazie ad un polsino più che esplicito, e che ha mostrato da subito di non essere su quel palco per fare da timida comparsa o da tappabuchi, evidenziando tutto il suo stile particolare e la sua presenza scenica per un’occasione così estemporanea.
Gli Slayer sono delle vere e proprie macchine da guerra e ancora una volta hanno fatto di tutto per mantenere viva la loro fama: Kerry King è stato truce e tagliente con la sua chitarra come al solito, i volumi sono stati sparati al massimo ed ogni nota del basso di Araya ha fatto vibrare ogni singolo centimetro della struttura che ci ospitava. Tutto lo show è stato programmato con la solita perizia per dare ai fan quello che sempre ed in ogni parte del mondo loro si aspettano dagli Slayer, ed il sorriso pacioso che spesso, tra un pezzo e l’altro, appariva sul volto del frontman, stava di certo a significare che anche la risposta ottenuta era quella desiderata.
Da copione anche l’urlo lancinante che ha annunciato War Ensemble, prima di una lunga serie di classici sparati sulla folla a raffica di mitragliatrice, senza praticamente alcuna sosta. Ascoltare calibri pesanti come Postmortem, Dead Skin Mask e The Antichrist è un piacere che solo gli amanti dell’estremo possono godere a livello pieno e gli Slayer sono i maestri riconosciuti dell’estremo.
Certo fa piacere ascoltare brani di livello medio come Americon, presentata in spagnolo dal cileno di origine Araya, come Snuff o come Payback, capisaldi dell’ultima era della band, ma l’innegabile fascino live di una Seasons in the Abyss o di una South of Heaven, è riuscito, senza fatica alcuna, a rendere tali composizioni solo noiose e riempitive.
In tanta marziale precisione è ovvio che più di una volta si sia buttato un occhio al lavoro di Gary Holt. Il chitarrista, come si diceva, si è spremuto al massimo per non essere da meno dei suoi amici: per chi lo conosce, è una cosa normale per lui avere un approccio sanguigno e coinvolto al live e questo, unito alla componente ovvia e assolutamente non marginale che lui è praticamente un intruso in un meccanismo collaudato da trent’anni, ha fatto trasparire qualche sbavatura, in particolare negli attacchi. Tutto sommato mi sento di definirli episodi trascurabili confrontati alla mole di parti mandate a memoria in poco tempo, per la cui complessità viene giustamente incensato il buon Hanneman.
I colpi tonanti inferti da Dave Lombardo alla sua batteria hanno dato presto il via alla distruttiva parte finale della serata. Una sempre emozionante Raining Blood ha aperto dunque la strada a Black Magic e ad una superlativa Angel of Death, scintilla conclusiva di un’esibizione molto intensa che, proprio per questo, è sembrata durare ancora meno dell’ora e un quarto effettiva.
Setlist: World Painted Blood
Hate Worldwide
War Ensemble
Postmortem
Temptation
Dead Skin Mask
Silent Scream
The Antichrist
Americon
Payback
Seasons in the Abyss
Snuff
South of Heaven
Raining Blood
Black Magic
Angel of Death
Protagonisti soddisfatti e pubblico in visibilio, è questo il bilancio della data romana dell’European Carnage Tour 2011: una serata di sfogo completo, all’insegna dell’headbanging selvaggio e del crowd surfing (che, tra l’altro, ha fatto molto incazzare la security del locale) continuo, uno show in cui 2 band di “vecchietti”, con tutti i problemi fisici che li affliggono o li hanno afflitti, hanno fatto il loro dovere in maniera impeccabile, ripagando in pieno chi ha pagato il biglietto e tutti quelli che, non potendo pagare cifre astronomiche alle Ferrovie dello Stato, sperano che serate come questa non rimangano troppo estemporanee nel prossimo futuro.
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PADOVA - Teatro Tenda, "European Carnage Tour" - 4 aprile 2011
(Foto a cura di Daniele Peluso)
(Report a cura di Daniele Peluso e Nicola Furlan)
SADIST
(Report a cura di Nicola Furlan)
In Italia, si sa, il coraggio di investire tutto se stessi nella musica è un'esolusività di pochi, anzi di pochissimi. Da sempre c'è chi, pur condividendo il territorio con una realtà ben lontana dalle aspettative e dal coraggio di giovani musicisti di Stati Uniti o Inghilterra, da sempre supportati nella speranza del professionismo, riesce ad emergere e lasciare un indelebile segno nella storia italiana del rock e del metal.
Tra queste realtà nostrane di successo ci sono i Sadist, technical death metal band genovese on-the road da più di venti anni con alle spalle sei full-length nonché un bel curriculum d'attività live. Credo che questa doppia data a supporto di realtà così importanti sia proprio quello che tutti chiamerebbero 'il coronamento di un sogno' sopratutto perché accaduto ora, in un periodo dove il thrash metal è rinato e dove non solo le giovani band s'esprimono con piglio notevole, ma pure i vecchi maestri dimostrano che lo smalto non s'è minimamente scalfito. I Sadist l'hanno saputo onorare questo show, omaggiando i presenti con cuore e passione! Sono stati perfetti, degni di un professionismo i cui confini geografici sono da sempre un po' stretti e che forse non hanno permesso di guardare in direzione d'orizzonti ben più ampi di quelli fin qui ammirati. Ma così è andata e, a mio avviso, non si poteva iniziare meglio la giornata. Portavoce di questa passione è stato il cantante Trevor di cui ho sempre apprezzato il credo e l'affabilità nonché la brillante abilità nel coinvolgere i ragazzi. Grazie a loro, l'Italia del metal è stata rappresentata alla grande... sì, abbiamo fatto proprio una gran bella figura!
Setlist: Season In Silence
One Thousand Memories
Tribe
Tearing Away
Sometimes They Come Back
MEGADETH
(Report a cura di Nicola Furlan)
Lo so, inizio questo live report in un modo che forse non tanti apprezzeranno, ma non sapete che piacere ho provato nel rivedere nuovamente sul palco Dave Ellefson, storico bassista dei californiani Megadeth capitanati dalla mente geniale e artistica del rosso Dave Mustaine. Il perché è presto detto. Non è propriamente vero, come tutti affermano, che i Megadeth sono da sempre solo Dave Mustaine 'dipendenti'. Ahimè, cruda realtà, ma è così. Da sempre il braccio destro del caratteriale frontman è Ellefson e, sopratutto nel corso degli anni più difficili, quelli caratterizzati da droga, alcol e riabilitazioni, quest'ultimo s'è sempre prodigato per tenere a galla la barca, un po' come fece il tarantolato Lars nei suoi Metallica. Ebbene sì, i Megadeth sono anche un po' di Ellefson, molto più di quanto lo possano esser stati in passato per tutti i nomi di spicco che hanno contribuito alla creazione di veri capolavori del genere quali "Rust in Peace" e "Peace Sells...but Who's Buying?". Questo concerto è stato speciale, magico e significativo anche per questo e il risultato ne dà ampia conferma.
Tutti i brani passati in rassegna, dai classici come In My Darkest Hour, Hangar 18, Wake Up Dead, Sweating Bullets, Symphony of Destruction, Peace Sells e Holy Wars... The Punishment Due agli altri splendidi di scaletta, hanno reso idea di quanta anima e perseveranza caratterizzi l'attitudine di una band che, come per tante altre di questo immortale movimento, s'esprie sempre e ancora a livelli elevati. Se poi a corollario del tutto ci metti la brillante qualità del solista Chris Broderick, capace nell'interpretare egregiamente ogni pezzo del passato (anche i più complessi targati Marty Friedman), allora il gioco è fatto e gli onori on-stage assicurati. Scaletta fantastica, pubblico in delirio, acustica eccelente, il tutto raffinato dal già citato gusto old-school determinato dalla presenza del caro vecchio bassista. Non si sarebbe potuto chiede di più. Immensi!
Setlist: Trust
In My Darkest Hour
Hangar 18
Wake Up Dead
Poison Was the Cure
1,320
Sweating Bullets
She-Wolf
Head Crusher
A Tout Le Monde
Symphony of Destruction
Peace Sells Encore: Holy Wars... The Punishment Due
SLAYER
(Report a cura di Daniele Peluso)
Restare attoniti, stupefatti, senza parole sono tra le reazioni più comuni all’essere umano. Lo stupore, nella stragrande maggioranza dei casi, è una delle reazioni involontarie più difficili da controllare. Lo stupore ti spiazza, ti coglie impreparato anche se tu, oramai avvezzo a determinati tipi di cose, se pronto a tutto.
Lo show che gli Slayer hanno offerto al pubblico è quanto di più vicino io possa accostare alla sorpresa; la mancanza di parole di un bimbo mentre apre il suo regalo di compleanno e trova dentro la pista elettrice delle macchinine: questo è l’impatto che ha avuto su di me la band statunitense.
Uno show così non lo vedevo da tempo. Il quartetto, orfano di Jeff Hanneman, ha dato vita ad uno spettacolo esplosivo, un delirio di sangue ed aggressività di potenza inaudita. Nessun fronzolo, nessuna smanceria verso i fan, un palco quasi totalmente privo di trovate scenografiche, fatta eccezione per due enormi aquile sovrastanti i due famosi muri di Marshall (simbologia occulta, o i tre livelli di amplificatori per un totale di sei ampli a fila sono un caso?), e tanta furia musicale. La ricetta Slayer sta tutta qui.
Questi “vecchietti” hanno mostrato all’eterogenea platea presente al Gran Teatro Geox di Padova cosa vuol dir suonare Thrash. E lo hanno fatto con la naturalezza disarmante di chi vive e sguazza da più di trent’anni nel marasma della musica stradaiola per eccellenza.
Sicuramente mi dispiace non poter più assistere agli headbanding di Araya; vederlo andare mestamente verso la batteria durante gli assoli dell’inedita coppia King/Holt mette un po’ di tristezza, certo, ma laddove il cantante ha perso in ‘immagine’ lo ha riacquistato in voce. Una prova davvero incredibile quella del buon Tom, capace di far letteralmente rizzare tutti i peli del corpo negli acuti, ad esempio, di “The Antichrist” o nelle prime battute di “Angel Of Death”. Mostruoso. Davvero.
Kerry King è la solita macchina da guerra macine riff. Carismatico, osannato, gira per il palco mandando in visibilio l’umidiccio ed infernale circe-pitt sottostante. Capitolo Lombardo: a detta di molti il miglior batterista Thrash di sempre. Non entro nel merito di classifiche e preferenze, quello che è sotto gli occhi di tutti è l’immane onda d’urto sprigionata dal musicista cubano. Sbaglia un attacco e fa divertire Araya (forse un po’ meno KK), per il resto è semplicemente devastante; suona con estrema naturalezza e, nelle parti di mero accompagnamento, ondeggia sui tom some se stesse suonando un “Danzón” sorseggiando un Cuba Libre ghiacciato. Uno spettacolo nello spettacolo.
Nota di merito per Gary Holt. Sostituire Hanneman non è da tutti, non farlo rimpiangere (musicalmente parlando) è ad appannaggio di pochi. Bravo, a tratti entusiasmante, dimostra un carattere e una personalità invidiabile e non soffre per niente della sindrome “dell’agnello sacrificale”, pronto cioè a essere dato in pasto ai lupi (fan e critica) al primo minimo errore. Un professionista a 360 gradi, merce rara di questi tempi.
Oramai non trovo più aggettivi per descrivere il combo californiano quindi, per riportare fedelmente quello a cui abbiamo assistito, non posso esimermi dal paragonare il gruppo di Los Angeles ad un buon Brandy: sempre più forte, intenso ed avvolgente man mano che il tempo passa.
Invecchiando si impara, e si diventa più forti…intramontabili, innarivabili Slayer!
Setlist: World Painted Blood
Hate Worldwide
War Ensemble
Postmortem
Temptation
Dead Skin Mask
Silent Scream
The Antichrist
Americon
Payback
Seasons in the Abyss
Snuff
South of Heaven
Raining Blood
Black Magic
Angel of Death
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Bagno di folla per l'unica data in suolo italiano del Paganfest 2011, sicuramente uno degli eventi più attesi dell'anno in corso, che ha radunato in quel di Bologna alcuni dei nomi più importanti della scena pagan/folk metal internazionale e che ha offerto ai presenti uno spettacolo oltremodo intenso, divertente e prodigo di emozioni. Per l'occasione, sul palco dell'Estragon si sono alternati veri e propri pezzi da novanta del calibro di Unleashed, Moonsorrow e Korpiklaani, assieme a nuove leve quali Varg, Arafel e Kivimetsän Druidi.
Problemi di traffico ci costringono ad arrivare con un certo ritardo al locale bolognese, impedendoci di assistere per intero alla performance del gruppo d'apertura, i Kivimetsän Druidi. Del gruppo finlandese riusciamo comunque a seguire una manciata di pezzi prima della conclusione dello spettacolo: abbastanza per permetterci di giudicare la qualità della loro proposta musicale, che nel complesso appare un po' troppo derivativa, davvero poco incisiva, e penalizzata in questa occasione da suoni settati in maniera piuttosto approssimativa.
Report a cura di Lorenzo Bacega e Angelo D'Acunto
Foto a cura di Angelo D'Acunto
Arafel
Ore 18:55 circa: con qualche minuto d'anticipo sulla tabella di marcia, si spengono le luci e ha inizio lo show degli Arafel. Al cospetto di un pubblico già piuttosto numeroso assiepato lungo le primissime file dell'Estragon, il quintetto di Tel Aviv, reduce dalla pubblicazione del terzo full length della carriera – intitolato For Battles Once Fought, rilasciato lo scorso gennaio tramite Noise Art Records –, si rende protagonista nella mezz'oretta a propria disposizione di una prova tutt'altro che memorabile, tutto sommato valida per quanto riguarda la presenza scenica, ma pesantemente condizionata da una resa sonora purtroppo non all'altezza della situazione: nonostante la buona volontà, lo spettacolo messo in piedi dalla band israeliana viene infatti irrimediabilmente rovinato da suoni bilanciati decisamente male, nel complesso un po' troppo impastati, che lasciano maggiore spazio alla voce e alla sezione ritmica, a scapito della chitarra e del violino – letteralmente persi in un vero e proprio maelstrom indefinito. Malgrado queste gravi imperfezioni, buona parte dei presenti dimostra di apprezzare ugualmente l'esibizione del gruppo israeliano, lanciandosi in continue ovazioni e reagendo a dovere agli attacchi frontali del frontman Helge Stang e della bella Nasha Nokturna.
Lorenzo Bacega
Varg
Discorso completamente diverso per quanto riguarda invece i Varg. Tornati a calcare il palco dell'Estragon a dodici mesi esatti dall'ultima (poco convincente, a onor del vero) apparizione sul suolo bolognese, i lupi di Coburgo offrono in pasto ai presenti uno spettacolo assolutamente compatto ed esaltante, privo di particolari sbavature sotto il profilo esecutivo (grazie anche a dei suoni finalmente puliti e complessivamente ben bilanciati) e allo stesso tempo piuttosto coinvolgente per ciò che concerne la presenza scenica. La scaletta proposta nei quaranta minuti circa a disposizione pesca in maniera abbastanza omogenea da tutta la discografia del gruppo teutonico, mantenendo un occhio di riguardo verso l'ultimo nato Wolfskult (pubblicato a inizio marzo tramite Noise Art Records), dal quale vengono riproposti brani del calibro della title-track, di Wir Sind die Wolfe e di Schwerzeit, ma senza tuttavia tralasciare la produzione più classica, in questa occasione rappresentata da una rocciosa Blutaar, dalla vivace Viel Feind Viel Vehr, oppure dalla tirata Wolfszeit. Uno spettacolo pienamente riuscito quindi quello messo in piedi dai tedeschi Varg, che in questo modo si riscattano dalla prestazione oltremodo deludente offerta un anno fa in occasione della scorsa edizione del Paganfest. Promossi senza riserve.
Lorenzo Bacega
Moonsorrow
Dopo un'attesa a dir poco estenuante, a causa di un'intro che sembra non finire più, salgono sul palco dell'Estragon i Moonsorrow. I finlandesi, attesissimi tra l'altro, si presentano con l'aggiunta di Janne Perttilä alla seconda chitarra, il quale sostituisce un Henri Sorvali che, a quanto pare, preferisce starsene tranquillamente in panciolle a casa, lasciando ai restanti componenti del gruppo il compito di sobbarcarsi le fatiche dei vari tour. Poco male comunque, i cinque di Helsinki, al contrario delle varie voci che descrivono i loro show come "poco degni di nota" (per usare un eufemismo), offrono ai presenti uno spettacolo a dir poco entusiasmante e carico d'energia.
Dopo la (seconda) intro Hävitetty, la band parte con le note di una Ukkosenjumalan Poika (dal primo Suden Uni) che soffre un po' troppo un settaggio dei suoni maldestro, ma che comunque, dal punto di vista esecutivo, rasenta la perfezione. Suoni che tornano su livelli ottimali già con la successiva Muinaiset (dall'ultimo Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa), e che rimarranno tali per tutta la durata del concerto. Show rappresentato da pochi (e impercettibili) cali di tensione, che continua ad incantare letteralmente i presenti sulle note di Kivenkantaja e Sankaritarina, per poi concludersi degnamente con Kuolleiden Maa (secondo pezzo tratto dall'ultimo disco). In ogni caso, se da una parte, come già detto, i finlandesi ci regalano uno show entusiasmante e privo di sbavature evidenti (esclusa la voce di Ville Sorvali in netto calo sul finale), d'altro canto la durata (poco più di 50 minuti) appare fin troppo esigua, soprattutto per un gruppo di questo calibro.
A noi rimane soprattutto la speranza di rivederli presto da queste parti, magari con un meritatissimo show da headliner.
Angelo D'Acunto
Unleashed
A parere di chi scrive gli Unleashed rappresentano una garanzia assoluta, più in sede live che su disco (l'esatto opposto di molti gruppi, in pratica). Anche in questa occasione, e quasi con una certa naturalezza, il combo di Kungsängen non fa prigionieri, dispensando un’ora abbondante di pregiato death metal svedese, infarcito ovviamente da testi viking (altrimenti qui al Paganfest ci starebbero come i cavoli a merenda).
Si parte con una Courage Today, Victory Tomorrow! (dall'ultimo As Yggdrasil Trembles) capace di stendere anche un toro, e si prosegue con una setlist orientata soprattutto verso le ultime release della band. Scaletta anche piuttosto varia (in altri termini, ovviamente) e che ha come scopo primario quello di non stancare nel giro di dieci minuti, con brani più veloci e diretti che si alternano ad altri pezzi ritmicamente più "moderati". Johnny Hedlund e soci, dal canto loro, proseguono lo show con compattezza e precisione tali da fare invidia a qualunque altra band in attività, centrando in pieno il bersaglio con l'esecuzione a dir poco magistrale di pezzi del calibro delle più recenti This Is Our Wold Now e This Time We Fight, o anche un vecchio cavallo di battaglia come Into Glory Ride.
Ennesima conferma, quindi, da parte di quella che può essere tranquillamente definita come una delle migliori live band attualmente in circolazione.
Angelo D'Acunto
Korpiklaani
A prescindere dal fatto che si apprezzi o meno la loro proposta musicale, una cosa è sicura: i Korpiklaani, dal vivo, ci sanno fare eccome. Accolto in maniera assolutamente calorosa da parte del numeroso pubblico bolognese, il sestetto finlandese, reduce dalla pubblicazione del settimo full length della carriera – intitolato Ukon Wacka, dato alle stampe lo scorso febbraio tramite Nuclear Blast –, si destreggia sul palco dell'Estragon in maniera ottimale, dando origine a una prova oltremodo solida e convincente su tutta la linea. I presenti, dal canto loro, dimostrano di gradire particolarmente la performance messa in atto dalla band finnica, lanciandosi in una lunga serie di apprezzamenti e di ovazioni di sorta – tra cui un insolito trenino, costituito da una trentina circa di elementi, che prende il via durante l'opener Päät pois tai Hirteen – e cantando a squarciagola tutti i cori. Poco bilanciata la setlist della serata, prevalentemente orientata verso la produzione più recente del gruppo, nella quale trovano spazio brani del calibro di Ukon Wacka, Tequila, Koivu Ja Tähti, Vaarinpolkka, Tuoppi Oltta e della cover di Iron Fist dei Motorhead (direttamente dall'ultimo, già citato, full length del gruppo), oppure di Juodaan Viinaa, Mettänpeiton Valtiaalle e Vodka (provenienti invece dal penultimo Karkelo, 2009). Non viene tralasciato comunque il passato, con un paio di estratti da Voice of Wilderness (rappresentato dall'accoppiata Cottages and Saunas/Journey Man) oppure la immancabile Wooden Pints (tratta dall'album di debutto Spirit of the Forest, 2003), brano che vede la partecipazione speciale di Ville Sorvali dei Moonsorrow al microfono. Chiusura affidata a un'acclamatissima Beer Beer e a una breve cover di Paranoid dei Black Sabbath, che mettono la parola fine a un concerto nel complesso energico, piacevole ed estremamente divertente.
C’era una volta Paul O’Neill e una strumentale composta per gli Scorpions, che peró nulla aveva a che fare con gli Scorpions. Cosí Paul O’Neill si reca da tale Jon Oliva e gliela porge in dono dicendo “fanne una canzone dei Savatage”. La canzone diventa Christmas Eve (Sarajevo 12/24) e finisce su Dead Winter Dead e su un promo che viene mandato a 500 radio americane. Tutte rispondono all’unisono che non passano singoli heavy metal dagli anni ’80 e che quindi il pezzo non andrá in onda. Jon Oliva é abituato a questo tipo di rigetti, Paul O’Neill invece ci rimane male. E rimurgina. Rimurgina fino a una mattina, ore 6 di mattina, quando alza il telefono e chiama il buon Jon Oliva. Dopo aver esordito con un perentorio “fuck them” illustra il suo piano diabolico: lo stesso identico brano verrá rimandato alle stesse radio sotto il nome Trans Siberian Orchestra. Convoca Oliva a New York e intorno a Christmas Eve (Sarajevo 12/24) costruisce un intero disco. Il singolo prende il largo verso gli studi delle stesse identiche stazioni che qualche settimana prima avevano dato picche e diventa numero 1 nelle chart di 479 di queste radio.
Da quel momento la Trans Siberian Orchestra é un assoluto fenomeno negli Stati Uniti, con due differenti compagnie itineranti (una sulla costa Est e una sulla costa Ovest) con record e record spazzati via, tra cui 4 concerti sold-out nello stesso giorno.
Nel 2000, dopo due album completamente dedicati a suoni e melodie natalizie, la Trans Siberian Orchestra patrorisce quello che, a distanza di una decade, rimane ancora il momento piú ispirato di O’Neill e soci: Beethoven's Last Night. Si tratta di un concept sull’ultima notte del compositore di Bonn, in una storia che segue le trame del teatro classico con spiriti, demoni, muse e inganni. Ha la struttura quasi di una colonna sonora, i cui cardini sono temi ricorrenti pescati dalla discografia di Beethoven e non solo: il fantasma di Mozart porta alla causa l’Overture de Le Nozze di Figaro, la Sonata Facile e il Requiem. Per festeggiare il decimo compleanno dell’opera la TSO imbastice uno show a metá tra il teatro e il concerto metal, come da tradizione, che finalmente tocca il nostro amato vecchio continente in Germania e Regno Unito.
La data di Londra trova tetto, luci e palcoscenico nell’HMV Apollo di Hammersmith e vede la TSO quasi al meglio con Pitrelli e Caffery alle asce e Lee Middleton al basso. Manca Jon Oliva, che é costretto a rinunciare all’ultimo per problemi familiari, ma c’é Jeff Scott Soto nelle parti del demonio, Mephistopheles.
Le lancette del vecchio orologio a pendolo girano al contrario vorticosamente e ci portano indietro nel tempo fino al 26 marzo 1827. Dalla Sonata al Chiaro di Luna prende vita l'Overture, ricca di citazioni dalla quinta e dalla nona. Un calderone che esplode e sparge le sue armonie sui tanti capitoli che compongono la storia. Un narratore lega le vicende e guida lo spettatore/ascoltatore con pezzi in prosa tra un brano e l'altro, mentre la TSO si prende la libertá di modificare qua e lá le versioni del disco, introducendo nuove parti, tagliandone altre. Apporta cambi dove é necessario, ovvero quei momenti piú popolati di linee strumentali difficilmente riproponibili in sede live. Uno stratosferico Al Pitrelli nelle vesti di direttore sul palco guida e coordina un coro di 7 elementi, i 6 archi che creano l’ensamble classico quasi da camera e la band nell’accezione piú classica del termine, a cui si aggiungono piano, tastiere e un drappello di prime voci tra cui spicca senza dubbio quella di Soto.
Si nota sin da subito come la TSO sia ormai un macchina perfetta in cui ogni ingranaggio funziona a meraviglia: ogni brano é eseguito con perfezione chirurgica, sia quando é il tratto tecnico-strumentale a scandire modi e attitudine, come nel trascinante duetto violino-chitarra di Figaro, sia quando é l’interpretazione a fare la differenza, come nella stupenda Dreams of Candlelight. Ci sono anziane signore, famiglie, bambini, il metalhead versione 1.0 con chiodo e capello lungo. Ci sono le magliette dei Sava, ovviamente. Ci sono i programmi in vendita, come una sera a teatro nel West End, perché finalmente qualcuno ha capito che il legame tra il metal classico e la musica classica puó essere fino come un mi cantino. In ambiente hard rock e classic rock, per non parlare di prog e folk, quello con la musica classica é un connubio ormai ben consolidato da generazioni. Il metal ha sempre storto il naso davanti a contaminazioni dal lato alto, quello accademico e "secchione". Talvolta a ragione, talvolta a torto. La Trans Siberian Orchestra é non a caso un nome che divide. Da un lato chi ha finalmente trovato il pomposo alfiere di questa alleanza metal/classica, dall’altra chi vorrebbe che il metal fosse rimasto ai Venom. Se é vero che gli episodi natalizi conditi di angioletti, regali e buoni sentimenti sono fin troppo melensi, Beethoven’s Last Night é un piccolo capolavoro. Dalla storia alla rielaborazione dei temi del buon Ludwig, tutto é curato con grande dovizia e gusto.
É un alfiere talvolta pacchiano, la TSO, ma con classe. Grande classe. Basta prestare attenzione agli arrangiamenti di questa sera, all’accuratezza e allo scrupolosa esecuzione di Caffery e Pitrelli. Al modo in cui un susseguirsi di 5-6 voci diverse si alternano dietro al microfono con professionalitá e carisma. Fino al mero numero di brani proposti e tempo passato sul palco, in un’epoca fatta di esibizioni fugaci 12-pezzi-e-via.
Allo scoccare delle due ore il prezzo del biglietto é pienamente ripagato, ma la TSO ha in serbo altro. Fa il suo ingress sul palco Paul O’Neill. La fine del tour Europeo é momento di orgoglio per il padre della TSO, soprattutto quando ad ospitare la creature é un palco importante come Londra. O’Neill non perde occasione per ricordare quanto la musica debba a quest'isola del nord Europa, citando e ringraziando le sue band preferite, tutte rigorosamente britanniche: ELP, Queen, Yes, The Who, Beatles e Pink Floyd. Una presenza come quella di O'neill non va sprecata e infatti ecco si apre una sorprendente seconda parte di show. La apre proprio O’Neill che si diletta prima all’acustica in un duetto con voce femminile poi all’elettrica, in una formazione a 3 con Caffery e Pitrelli che passando per un tributo ai Beatles – una versione metal di Help! – riporta in vita The Dungeons are Calling/Prelude to Madness in un momento strumentale. Gli si accodano una bellissima Sleep da Edge of Thorns e O Fortuna dai Carmina Burana di Orff . Finale con il botto e Chance, ancora di marchio Sava ma questa volta da Handful of Rain.
Tre ore piene di concerto, diverse standing ovation – perché sí, i posti sono tutti rigorosamente a sedere – e l’immancabile promessa: “torneremo presto”. Parola di Paul O’Neill. Il vecchio continente aspetta.
Setlist:
Overture
Midnight
Fate
What Good This Deafness
Mephistopheles
What Is Eternal
Mozart and Memories
Vienna
Mozart/Figaro
The Dreams of Candlelight
Requiem (The Fifth)
The Dark
Für Elise
After the Fall
A Last Illusion
This Is Who You Are
Beethoven
Misery
Who Is This Child
A Final Dream
Toccata - Carpimus Noctem
The Dungeons are Calling/Prelude to Madness (Strumentale)
Sleep (Savatage)
Help! (The Beatles)
The Child Unseen
Another Way You Can Die
O Fortuna
Chance (Savatage)
Alessandro 'Zac' Zaccarini
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Sarà la giornata di festa o il richiamo del gruppo, ma le parole sold-out echeggiano nelle parole dei presenti in maniera piuttosto consistente. Quello dei Black Label Society è infatti uno show atteso, soprattutto dopo la ritrovata forma del loro leader, quello Zakk Wylde che si è da poco ripreso dopo qualche mese passato in ospedale. Ad accompagnare i quattro membri della società dell’etichetta nera, i misconosciuti Godsized, quartetto inglese tutto da scoprire. A voi il resoconto di una serata veramente calda, in tutti i sensi!
Live report a cura di Andrea “Thy Destroyer” Rodella
Foto a cura di Paolo Manzi
Godsized
Già sulle prime note della band britannica si nota come il pubblico sia già considerevole e non lesini affatto applausi e lodi al quartetto, il quale, dal canto suo, mette sudore e rabbia per una proposta musicale a metà tra hard rock, stoner e qualche velleità moderna in stile Creed. Senza nessun contratto alle spalle, i Nostri portano in giro per il mondo i brani estratti dai loro due Ep finora pubblicati (Brothers In Arms e The Phoney Tough & The Crazy Brave) con grande convinzione a fiducia nei propri mezzi. Gli intervenuti, soprattutto quelli delle prime file, rispondono molto bene e non mancano di incitare la band, la quale ricambia con ringraziamenti a profusione. Highlights dello show Bleed On The Inside e The Last Goodbye, canzoni queste che lasciano trasparire una buona potenza ed un discreto avvenire per il futuro del gruppo inglese.
In particolar modo, la voce del cantante/chitarrista Glen si pone come buon catalizzatore per una proposta non certo innovativa, ma affascinante quanto basta per poter meritatamente applaudire in chiusura dello show. La band al completo ha poi raggiunto il banchetto del merchandise per firmare autografi e fare foto con i fan, invero parecchi. Ottimi opener, i Godsized sono riusciti a scaldare a dovere l’audience, impresa mai facile per una band sconosciuta ai più.
Setlist
Walking Away
The Phoney Tough & The Crazy Brave
Fight & Survive
No Repreve
Brothers In Arms
The Last Goodbye
Bleed On The Inside
Head-Heavy
Black Label Society
Chiusa la buona performance del gruppo di spalla, cala un telo nero davanti al palco dell’Alcatraz con raffigurato il logo dei Black Label Society. Chi si trova ai lati può sbirciare l’allestimento ed effettivamente si intravede l’asta del microfono di Zakk con accanto una pedana rialzata. Nel frattempo, la temperatura all’interno del locale è salita notevolmente e nelle prime file non c’è spazio per respirare, tant’è che le transenne riceveranno sollecitazioni notevoli da parte del pubblico delle prime file.
Terminata l’attesa, il telone viene fatto cadere sulle note di The Beginning… At Last e la folla risponde con un boato di grandissimo effetto. L'allestimento del palco è tutto sommato abbastanza scarno con un muro di amplificatori che costituiscono l'unica concessione alla scenografia, insieme ad una pedana posta vicino all'asta del microfono di Zakk Wylde e dove il barbuto chitarrista si staglierà più volte durante i suoi assoli. A questo proposito, durante l’esecuzione di In This River, fanno la loro apparizione due grandi teli raffiguranti Dimebag Darrell, grande amico di una vita a cui è dedicata questa canzone. In quest’occasione c’è anche modo di ammirare sia il talento di Zakk alle tastiere, sia quello di Nick Catanese, il quale si rende protagonista di un bell’assolo nella fase centrale del pezzo.
Menzione d’onore per il nuovo arrivato Johnny Kelly (Seventh Void, ex-Type O’ Negative, Danzig), il quale dimostra di essere entrato alla perfezione nello spirito dei Black Label Society: tanto sudore, heavy metal ed un’attitudine volta a dare un tiro micidiale ai brani. Coadiuvato dal bassista John “JD” DeServio, il batterista dà vita ad una sezione ritmica potente e trascinante, in grado di reggere perfettamente il confronto con i suoi predecessori, Craig Nunemancher (ex-Crowbar) in particolare.
Tornando alla scaletta, fa piacere sentire diversi ripescaggi da quel mezzo capolavoro che fu The Blessed Hellride, mentre c’è spazio per un solo estratto dal primo album, Sonic Brew. Diversa sorte è toccata a Stronger Than Death e 1919 Eternal, completamente ignorati a favore dell’ultimo arrivato Order Of The Black. Tali scelte sono tutto sommato comprensibili e, polemiche a parte, la setlist è tutto sommato ben costruita e, ovviamente, non mancano i momenti in cui Zakk si mette in mostra con degli assoli spumeggianti e nel suo tipico stile esuberante. In mezzo a tutto ciò, vanno segnalate le esecuzioni di The Blessed Hellride con tanto di Gibson diavoletto a doppio manico sia per Wylde che per Catanese ed un lancio di palloni gonfiabili durante Fire It Up, trovata che ha fatto divertire parecchio le prime file, invero schiacciate contro delle transenne che stavano quasi per cedere.
La chiusura dello show è affidata a Stillborn, forse la canzone più famosa del quartetto, e l’assenza di bis lascia un po’ l’amaro in bocca, visto che si è trattato di un concerto durato solo un’ora e mezza. Forse si poteva togliere un po’ di spazio agli assoli di Zakk ed inserire almeno altri due brani, ma è anche vero che il nuovo batterista ha avuto pochissimo tempo per imparare i pezzi (solo 4 giorni) e quindi non si poteva pensare di sforare più di tanto dagli schemi. Altra nota da segnalare è quella riguardante i volumi, veramente assordanti e carichi come raramente è capitato di sentire all’interno dell’Alcatraz di Milano.
In ogni caso, pollice alto per una band che ha saputo dare spettacolo con un live show intriso di rabbia, furia e grandissima attitudine. Tutti coloro i quali hanno assistito allo show possono dirsi assolutamente soddisfatti ed i sorrisi visti fuori dal locale ne hanno dato piena conferma.
Setlist
The Beginning… At Last
Crazy Horse
What’s In You
The Rose Petalled Garden
Funeral Bell
Overlord
Parade Of The Dead
Zakk’s Keyboard Solo
In This River
Fire It Up
Zakk’s Guitar Solo
Godspeed Hell Bound
The Blessed Hellride
Suicide Messiah
Concrete Jungle
Stillborn
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Killfest Tour - Live Club, Trezzo sull'Adda, 9 marzo 2011 Live e Photo Report a cura di Nicola Furlan
Difficile pensare che gli amanti del thrash metal non abbiano presenziato alla serata del 9 marzo, serata che ha visto sul palco del Live Club di Trezzo sull'Adda alcune delle band più in forma del movimento internazionale. Si tratta di Heathen, Destruction e Overkill, degni rappresentanti del thrash metal d'ogni dove. Infatti, le tre zone geografiche che hanno dato i natali a questi tre mostri sacri sono storicamente (da sempre) le più attive e importanti per questo genere musicale: la Bay-Area californiana per gli Heathen, New York e zone limitrofe per gli Overkill e la Germania per i Destrucion. Ad aprire il concerto c'hanno pensato gli After All, thrash metal band belga che è stata in grado di proporre uno show più che dignitoso e di gestire con piglio qualche problemino tecnico all'impianto..., ma veniamo ai piatti forte di serata.
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HEATHEN
Un gran peccato che una band di qualità come gli Heathen debba affrontare uno show con solo quattro cartucce in canna, sopratutto alla luce del fatto che l'ultimo full-length pubblicato nel 2009, "The Evolution of Chaos", s'è attestato come una delle release thrash metal più rilevanti degli ultimi quindici anni. E proprio da questo sono stati estratti i brani, nello specifico: il classico Dying Season più Control By Chaos, Arrows Of Agony e No Stone Unturned.
Ottima la prova e ottimi i suoni. Devastanti come sempre la presenza e la classe del chitarrista ritmico e fondatore Lee Altus. E, sebbenenon abbia più l'ugola dei tempi d'oro, pure il cantante David Godfrey ha saputo coinvolgere i ragazzi delle prime file come l'old-shool ha insegnato: tante le pacche alle mani, slanciati incitamenti di cuore e richieste per cori sovrapposti a sostenere la qualità di un songwriting eccellente nonché la presenza di una band che merita e pretende (a ragione) sentito rispetto. Davvero immensi!
Setlist:
Dying Season
Control By Chaos
Arrows Of Agony
No Stone Unturned
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DESTRUCTION
Chi ha visto dal vivo i Destruction sa che sono una band che non delude. Chi ama il vecchio e graffiante teutonic thrash
ha (e avrà) in Schmier e compagni un punto di riferimento essenziale come solo poche altre band tedesche sono in grado di garantire. Sebbene, volendo fare un paragone forzato, consideri da sempre Tankard, Sodom e Kreator gruppi con 'una marcia in più', on-stage il terzetto di Baden-Württemberg se la cava sempre alla grande, sopratutto quando c'è da cacciar dal cilindro super classici come Mad Butcher, Thrash Till Death e Soul Collector. Sarà un mio limite, ma è da tempo che colgo tanto mestiere nel loro modo di porsi al pubblico... però rende!
Questo non toglie nulla al valore storico di una band che, a voler esser onesti, proprio quest'anno ha prodotto un album valido e in grado di competere con i grandi maestri ritornati in ague in campo thrash internazionale. Anche in questo caso il livello dei suoni è stato ben bilanciato eccezion fatta per un basso spesso soffocato dai bassi emessi dalle pelli del nuovo arrivato Wawrzyniec Dramowicz, vera macchina di precisione.
Setlist:
Curse The Gods
Mad Butcher
Armageddonizer
Tears Of Blood
Thrash Till Death
D.E.V.O.L.U.T.I.O.N.
Bestial Invasion
Soul Collector
Hate Is My Fuel
Nailed To The Cross
The Butcher Strikes Back
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OVERKILL
Lo spettacolo! Non c'è stata occasione in cui non abbia visto gli Overkill in forma, in cui una sola volta Bobby 'Blitz' Ellsworth abbia ceduto dal punto di vista vocale e dell'entusiasmo. Gli Overkill erano e sono una macchina da guerra. Erano e sono uno dei più importanti punti di riferimento per la scena thrash metal statunitense (nel caso specifico, newyorkese) nonché una delle più costanti formazioni, sia in termini produttivi, sia per brillantezza on-stage. La dice lunga la stessa esecuzione dei brani, per buona parte 'riarrangiati' in termini di velocità. Potrà aver fatto storcere il naso a qualcuno, ma una Elimination piuttosto che una Fuck You suonate al doppio della velocità altro non sono che il segno d'una freschezza e d'una padronanza del mestiere con pochi pari nel circondario e che solo i grandi maestri possono permettersi di proporre.
Puntellata da gioiellini quali Rotten to the Core, Infectious, Bring Me the Night, Ironbound e Blood Money, la tracklist è un susseguirsi di rocciosi groove dettati da serrati riffing sfonda-timpani e da energie sovralimentate da cinque musicisti convinti ed efficaci in ciò che fanno. E sotto il pogo... e sopra il pogo, i ragazzi lanciati oltre le transenne! Tutto come i vecchi tempi: la stessa energia, la stessa classe! Prestazione mostruosamente riuscita. Non si sentiva parlare d'altro se non di quanto fossero stati grandi. Giovani leve e vecchi balordi ormai acciaccati: ogni fan ne è rimasto entusiasta!
Setlist:
The Green and Black
Rotten to the Core
Wrecking Crew
Infectious
Bring Me the Night
Bastard Nation
Hammerhead
Ironbound
Blood Money
Endless War
Hello from the Gutter
Give a Little
Old School
Tornati in Italia a poco più di due anni dall'ultimo tour in compagnia dei Blood Ceremony, gli Electric Wizard hanno deciso di "regalare" al pubblico italiano ben tre date sparse tra centro e nord della penisola (Bologna, Roma e Torino). Per l'occasione abbiamo seguito il primo dei tre show, che si è svolto in un locale piccolo come il Locomotiv, ma capace comunque di garantire, come ben vedremo, una buona resa sonora che, per una band di tale caratura, è quantomeno il minimo sindacale.
L'apertura è affidata ai Caronte, band di recente formazione che propone uno stoner doom sabbathiano in linea certo con le coordinate stilistiche della serata, ma che poco convince dal punto di vista live. Non perfetta soprattutto l'esecuzione a causa dei diversi errori commessi dai due chitarristi e ancor più meno convincente la voce del cantante, che a tratti sembra emettere dei veri e propri versi indistinti (tanto per sottolineare l'imprecisione della sua pronuncia in lingua inglese).
Fortunatamente le cose sono destinate a cambiare nel giro di pochi minuti, quando di lì a poco arriverà l'ora degli Electric Wizard. La band capitanata da un Jus Oborn in netto sovrappeso, a parere di chi scrive, sia su disco e, soprattutto, dal punto vista live, è sicuramente una delle garanzie più assolute che possano esistere in ambito doom. Non ne fa eccezione nemmeno la serata di Bologna, caratterizzata da note positive, ovvero da una band in gran forma, un pubblico numeroso e suoni ben definiti, ma anche da qualche rimpianto di troppo, come una setlist composta da soli otto pezzi suddivisi in un'oretta scarsa di concerto. Poco male, in ogni caso, lo show dei quattro inglesi ha comunque sfiorato la perfezione, se escludiamo i problemi dell'amplificatore di una Liz Buckingham additata dai soliti imbecilli, con esclamazioni dal dubbio gusto morale, più per il suo essere donna che per il ruolo di chitarrista (ottima, tra l'altro). Setlist che, come da previsione, attinge dalle ultime pubblicazioni degli Electric Wizard, con ben tre pezzi tratti dall'ultimo Black Masses (Scorpio Curse, Night Child e Black Mass), più le tre dal precedente Witchcult Today (la stessa title-track, The Chosen Few e Satanic Rites Of Drugula) e, ovviamente, altre due vere e proprie perle del calibro di Return Trip (Come My Fanatics) e il finale dedicato ai dieci minuti della pesantissima Dopethrone.
Rimane comunque il rammarico per uno show della durata fin troppo breve, soprattutto se contiamo che il prezzo del biglietto di 22 euro (15 più 7 euro per una tessera che nessuno utilizzerà mai) appare fin troppo sproporzionato rispetto ad una band che, nonostante il suo valore, concede ai presenti solamente un'oretta scarsa di concerto.
Angelo D'Acunto
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Ritorno in pompa magna per Symphony X e Nevermore, i quali mettono insieme un pacchetto di cinque band totali per un esteso tour che risponde al nome di Power Of Metal. Come se non bastassero i due nomi già citati, il ritorno sulle scene degli Psychotic Waltz ha aggiunto quel pizzico di pepe ad un bill già di per sé imperdibile. Ecco quindi il resoconto dei due appuntamenti in terra italica. Buona lettura!
Report e Foto di Firenze a cura di Francesco 'Darkshine' Sorricaro
Report e Foto di Milano a cura di Andrea 'Thy Destroyer' Rodella
Firenze, Viper Theatre 05-03-2011
Power of Metal, un vero e proprio mini festival itinerante che sta portando in giro per l’Europa, a calcare il medesimo palco, alcune tra le migliori e più fantasiose band americane degli ultimi 30 anni: i re indiscussi del power-prog Symphony X, gli innovatori assoluti del thrash metal Nevermore ed una graditissima re-union, quella degli Psychotic Waltz, cult band degli anni ’90 che ha deciso di rimettersi in carreggiata, attirandosi le benedizioni gaudiose di migliaia di appassionati, incluso il sottoscritto.
La prima bandierina italiana di questo tour è posta sulla bella Firenze, la quale ha dimostrato di rispondere abbastanza positivamente alla chiamata; fin dalle prime ore, infatti, il Viper era gremito per gran parte della sua capienza, nonostante gli orari precedentemente segnalati dall’organizzazione non siano stati rispettati in pieno.
La carne al fuoco era tanta e, anche per questo, tralascerò di parlare a lungo delle due band che hanno avuto l’onore/onere di aprire per la tripletta sopracitata. Basti dire che i precisi finlandesi Thaurorod giovano moltissimo dell’istrionismo, vocale e non, di un Michele Luppi in grande spolvero e che i danesi Mercenary, alla loro ennesima calata italica, si sono dimostrati gruppo onesto e volenteroso come al solito, non riuscendo però ad andare oltre questo nella valutazione generale.
Psychotic Waltz
Per molti il vero evento della serata, il ritorno su un palco degli Psychotic Waltz, progster della prima ora discioltisi verso la fine degli anni ’90 dopo una serie infinita di circostanze sfortunate, è stato accolto con un misto di attesa e di grande curiosità. In molti sono quelli che non hanno mai sentito nominare questo monicker che diede alla luce quattro album pregni di colorata creatività in soli 6 anni e poi, sul più bello, chiuse bottega.
Quando si è palesata sul palco la sedia a rotelle di Brian McAlpin, uno dei loro segni distintivi più famosi, ci si è sentiti proiettati decisamente in un’altra epoca, un’epoca in cui l’aspetto esteriore poteva ancora, talvolta, passare in secondo piano di fronte alla musica. Buddy Lackey ed il resto della truppa sono sembrati voler confermare questa impressione. Il frontman è entrato in scena con un abbigliamento che definire “comodo” sarebbe riduttivo, ma quando ha preso in mano il microfono tutto è passato subito in secondo piano.
Inizio di show affidato a due brani tratti da Into the Everflow: il lento evocativo incedere di Ashes e la stessa titletrack del suddetto album del ’92. I cinque americani sono sembrati presi ed ispirati come se il tempo non fosse passato affatto e le magiche atmosfere prodotte dai loro strumenti hanno così pervaso immediatamente l’intera sala. Il pubblico è apparso spiazzato dal prog metal degli Psychotic Waltz, così diverso dalla proposta dei più noti Symphony X, più diretta e giocata sulle evoluzioni tecniche in velocità e sulla pienezza roboante degli arrangiamenti. Quello ascoltato è invece qualcosa di più vicino alla psichedelia ed all’indole settantina: invenzioni che crescono pian piano nel corso di brani mediamente abbastanza lunghi ed atmosferici come Nothing, tratta dal debutto A social grace, che si è insidiata sinuosamente, ammutolendo il pubblico anche grazie ad un visibilmente emozionato Lackey, che giostrava la sua vocalità intensa ondeggiando sul palcoscenico al ritmo sconclusionato del pezzo.
Si è così susseguita una piccola scaletta di grandi classici come I of the Storm, forte delle armonie perfette create dalle due asce di Dan Rock e dello stesso McAlpin, con chiusura affidata ad Halo of Thorns, la quale ha salutato con classe una platea plaudente e piacevolmente sorpresa.
Gli Psychotic Waltz sono tornati, ed il piccolo assaggio che hanno dato questa sera ha saziato appieno la sete dei molti appassionati che sono venuti al Viper soprattutto per loro e che non vedono l’ora di ascoltare il nuovo materiale cui sembra (da fonte diretta) stiano alacremente lavorando.
Setlist
Ashes
Into the Everflow
Morbid
Nothing
I of the Storm
Halo of Thorns
Nevermore
Molto attesi erano anche i Nevermore di Warrel Dane. Reduci dalla pubblicazione del controverso, ma anche molto apprezzato dalla critica, The Obsidian Conspiracy, i ragazzi di Seattle si sono presentati sul palco con formazione rimaneggiata, causa i seri problemi di salute dello storico bassista Jim Sheppard. Il sostituto si rivelerà essere una lei, in particolare, come da presentazione dello stesso Dane, miss Dagna Silesia, altro prestito dal progetto solista del frontman dopo il bravissimo Attila Vörös. Una scelta che ha pagato, a vedere la sicurezza ostentata dalla nuova entrata: dimostrazione di quanto bene sia riuscita ad acquisire le difficili partiture dei brani che, in così breve tempo, ha dovuto mandar giù.
La band è sembrata, ad ogni modo, collaudata come non mai ed un Warrel Dane in vena di dialogo non ha mai smesso di creare empatia con le prime file.
La scaletta della serata ha pescato a piene mani solo dagli ultimi dieci anni di carriera dei Nevermore: da Dead Heart in poi, cosa che, alla fine, deluderà non pochi fan; ma la passione con cui sono state eseguite perle di violenza come The Termination Proclamation, The River Dragon Has Come o la goduriosa Born, accostata da Dane a Over The Wall dei Testament, ha soffocato nel sudore di un headbanging selvaggio qualsiasi recriminazione.
Piccola nota di demerito per la security del locale che, inspiegabilmente per un concerto del genere, si è presa la briga di sedare sul nascere anche il minimo accenno di pogo, attirandosi il malcontento e gli improperi di tutti. Forse a volte bisognerebbe esigere il senso del limite anche da parte loro.
Il concerto comunque è andato avanti con molti richiami all’ultimo lavoro della band: Your Poison Throne, Moonrise (Through Mirrors of Death), Emptiness Unobstructed sono ricche di fraseggi intricatissimi e serrati, che hanno dato modo, ancora una volta, di rimanere a bocca aperta di fronte a sua maestà Jeff Loomis, un chitarrista di cui si tessono sempre troppo poco le lodi: pulito e preciso come pochi e dotato di una presenza scenica non indifferente, soprattutto quando si accosta all’amico Warrel sul palco.
Non sono mancati i momenti in cui la splendida voce del cantante americano ha potuto emozionare da par suo e The Heart Collector è stata sicuramente la protagonista di uno di quei momenti insieme a This Godless Endeavor ed alla stessa Emptiness: pseudo-ballad ricche di contrasti stridenti come da tradizione Nevermore, con le quali egli è maestro assoluto nel tenera l’audience in palmo di mano.
Chiusa prevedibilmente da una Enemies of Reality cantata a gran voce dalla sala, l’esibizione dei Nevermore è stata il solito connubio di emozioni e perizia assassina che ha mandato in tripudio il Viper; un po’ troppo breve per i miei gusti, ma con un crescendo competitivo che il gruppo successivo ha dovuto faticare tremendamente per superare.
Setlist
Inside Four Walls
Moonrise (Through Mirrors of Death)
The Termination Proclamation
Your Poison Throne
Born
The Heart Collector
The River Dragon Has Come
Emptiness Unobstructed
This Godless Endeavor
Enemies of Reality
Symphony X
I Symphony X hanno goduto della maggioranza del pubblico venuto solo per vedere loro, un pubblico eterogeneo per età che ha sbavato per ogni evoluzione dei musicisti americani i quali, disponibili come sempre, non si sono risparmiati, dando vita ad uno show di altissimo livello.
La partenza è stata affidata al cavallo di battaglia Of Sins and Shadows, la quale ha avuto il potere di far schizzare immediatamente il termostato del Viper verso temperature roventi. Appena salito sulle assi, Russell Allen ha, come sempre, riempito il palcoscenico con la sua fisicità ed il suo atteggiamento caciarone andando spesso a stuzzicare l’altro pezzo da novanta Michael Romeo, anch’egli in gran forma e spigliato più che mai verso i suoi fan che, da ogni lato del palco lo acclamavano e cercavano di toccare il suo strumento.
Grande spazio è stato presto dato all’ultimo riuscito concept album Paradise Lost, che ha risuonato grazie a Domination,Serpent’s Kiss e la titletrack introdotta dall’emozionante pianoforte di Michael Pinnella. Il coefficiente di difficoltà di questo lavoro è molto alto ma i nostri hanno eseguito i brani con la solita nonchalance, e lo spreco di cori e l’entusiasmo generato ha dimostrato ancora una volta che questi sono pezzi entrati già a far parte della storia della band del New Jersey.
Nel mezzo, la chicca di un brano estrapolato dal prossimo, non ancora pubblicato, Iconoclast. Di primo acchito, End of Innocence non è parsa brillare al confronto con le altre presenti in scaletta: di media lunghezza e dotata di un cuore strumentale molto cospicuo, non è riuscita a spiccare per originalità più dell’altro estratto Dehumanized, successivamente proposto, il quale, con il suo inizio cadenzato e lievemente dissonante, a la Black Label Society, ha messo in mostra qualche novità in più; se non altro, un Russell più aggressivo del solito nel cantato. Inferno (Unleash the Fire), posta al centro della setlist, ha avuto il potere di infiammare nuovamente e decisamente la situazione: un brano che non smette mai di entusiasmare, soprattutto quando viene eseguito con una tale perfezione e foga da ognuno di questi professionisti assoluti che non hanno sbagliato un colpo per tutta la serata; se si eccettua qualche plausibile calo di Allen nelle parti più alte, dovuto per lo più al perpetuo gironzolare del cantante sul palco per fomentare il pubblico.
Si sono susseguiti quindi altri highlight come la sinfonica Smoke and Mirrors, riprodotta con perizia dalle orchestrazioni di Pinnella, e la prevista conclusione con la tempestosa Set the World on Fire (The Lie of Lies), che ha scatenato ancora una volta la voce e l’headbanging selvaggio di tutto il Viper.
I Symphony X a quel punto sono usciti di scena, ma sono dovuti presto rientrare da dietro le quinte, trascinati fuori dai loro fan acclamanti. È a quel punto che Russell Allen ha rivelato che, nel giro di poche ore, si sarebbe festeggiato il compleanno di Romeo. Ecco dunque sbucare una bottiglia di whiskey, che il malcapitato (fino ad un certo punto) chitarrista è stato costretto a scolare in poche sorsate, in coppia con il minaccioso amico, al suono dell’happy birthday di tutta la platea.
È questo lo spirito che ha fatto da sfondo all’esecuzione dei due ultimi brani della serata, per la cronaca: Eve of Seduction e Sea of Lies da The Divine Wings of Tragedy, introdotta dall’inconfondibile groove di Michael LePond, per chiudere, così come si era aperto, uno show intenso e coinvolgente, l’ennesimo di questa splendida giornata all’insegna dell’heavy metal più emozionante su piazza.
Probabilmente è stato proprio questo il filo conduttore di questo Power of Metal 2011: un tour molto ben assortito che ha visto alternarsi diverse anime della musica che amiamo, tutte accomunate dalla voglia di lasciare sul palcoscenico emozioni vere da regalare ai fan, e a Firenze, questo traguardo può dirsi tranquillamente raggiunto.
Setlist
Of Sins and Shadows
Domination
Serpent's Kiss
End of Innocence
Paradise Lost
Inferno (Unleash the Fire)
Smoke and Mirrors
Dehumanized
Set the World on Fire (The Lie of Lies)
Eve of Seduction
Sea of Lies
Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro
Milano, Alcatraz 07-03-2011
Seconda ed ultima tappa italiana per il carrozzone del Power Of Metal Festival che, dopo Firenze, ferma in quel di Milano, più precisamente, all'Alcatraz. La prima cosa che si nota appena si varca la soglia d'ingresso del locale meneghino è il fatto che è stato allestito il famoso Palco B (quello sul lato destro, per intenderci), mentre la fetta di spazio di fronte al più esteso Palco A risulta chiusa al pubblico dal solito tendone nero. Le cinque band che si alterneranno sul palco stasera saranno quindi costrette a fare i conti con degli spazi relativamente limitati, ma è da dire che tutti sono riusciti a dare spettacolo per una serata all'insegna del grande metal.
Se all'apertura dei cancelli alle ore 17 c'era effettivamente poca gente, l'Alcatraz è andato riempiendosi via via che l'ora si è fatta più tarda per raggiungere il picco di capienza in occasione dei Nevermore e dei Symphony X. Se la scelta di accorpare insieme band dalla proposta tutto sommato piuttosto differente poteva essere un rischio, bisogna dire che alla fine ha pagato parecchio dando in pasto ai presenti uno show ricco e variegato quanto basta. Inoltre, la reunion degli Psychotic Waltz ha fornito un ulteriore spunto d'interesse per i cultori della grande band americana, fin troppo sottovalutata ai tempi ed oggi ritrovatasi in gran forma proprio in occasione di questo tour.
Thaurorod
Si parte con i Thaurorod, band finlandese con all'attivo un solo album e sei avvicendamenti solo per quel che riguarda il ruolo di cantante. L'ultima novità in questo senso è infatti l'arruolamento del “nostro” Michele Luppi alla voce, garanzia del panorama tricolore ed istrionico frontman capace di catalizzare l'attenzione dei presenti con il suo grande carisma.
Entrando nel merito della musica, va detto che non ci si allontana più di tanto dai canoni del power metal propriamente inteso, eccezion fatta per qualche incursione in blast beat del batterista Joonas Pykälä-aho. In ogni caso, è proprio Michele che, giocando in casa, fa la differenza intrattenendo con battute e scherzi il pubblico ed interpretando alla grande i brani del combo finnico. Su tutte, la conclusiva Shadows And Rain si staglia su un livello più alto rispetto alle altre con un ritornello veramente azzeccato.
Peccato anche per i suoni, ancora tutti da bilanciare, che hanno portato in primo piano la batteria e la voce, relegando in secondo piano chitarre e basso e soffocando quasi totalmente le tastiere. Tutto sommato, quindi, una prestazione canonica per la band, eccezion fatta per il già citato Luppi, frontman stellare e di cui dobbiamo essere orgogliosissimi.
Setlist
Warrior's Heart
Tales Of The End
Morning Lake
Guide For The Blind
Scion Of Stars
Shadows And Rain
Mercenary
Fanno il loro ingresso dopo un rapido cambio palco i danesi Mercenary, fautori di un melodic death metal con punti di riferimento tra Dark Tranquillity e la nuova scuola metalcore. Avendo poco tempo a disposizione ed un album da promuovere, il quartetto pesca abbondantemente da Metamorphosis, ultimo parto discografico uscito da non molto tempo. Purtroppo i suoni sono ancora in fase di definizione e ne esce fuori un impasto che non rende giustizia alla proposta della band.
Se l'apertura, affidata a World Hate Center ha generato qualche episodio di headbanging nelle prime file, le successive canzoni hanno visto un progressivo calo d'attenzione da parte del pubblico, il quale si è però dimostrato paziente ed ha rispettosamente lasciato concludere la performance del quartetto. Certo, si può tranquillamente considerare il fatto che il quartetto è un po' la mosca bianca di questo tour e quindi ci si poteva aspettare un'accoglienza fredda da parte dell'audience, soprattutto per il fatto che proprio quel Metamorphosis che ha visto l'abbandono del vecchio cantante non ha pienamente convinto.
Finiti i loro 35 minuti ci si è facilmente lasciati alle spalle la performance di una band certamente onesta, ma che deve ritrovare la propria strada.
Setlist
Into the Sea of Dark Desires (Intro)
World Hate Center
The Endless Fall
Through The Eyes Of The Devil
In A River Of Madness
In Bloodred Shades
The Follower
Firesoul
Psychotic Waltz
Attesa dai cultori della formazione americana, la reunion degli Psychotic Waltz è stata accolta con un boato dai presenti e da un colpo al cuore dagli affezionati. Finalmente l'impianto audio dell'Alcatraz restituisce suoni potenti e nitidi, quindi lo show ne guadagna moltissimo anche in materia d'impatto.
Vedere che questi cinque attempati signori si divertono ed ammaliano il pubblico con il loro intricato progressive metal che, però, non perde mai di vista il fattore psichedelico mutuato dagli anni '70. L'iniziale Ashes dà il via alle danze e spiazza i non pochi presenti che non conoscono la proposta della band. Le splendide atmosfere di Into The Everflow, poi, accompagnano tutti in un viaggio lisergico guidato dalla grande voce del frontman Buddy Lackey, per l'occasione apparso in una veste decisamente informale. È proprio il cantante a prendere le redini dello show, catalizzando su di sé l'attenzione dei presenti, pronti a ripagare con applausi sentiti e sinceri. Le chitarre di Dan Rock e Brian McAlpin, poi, si danno battaglia tramite costruzioni armoniche di grandissimo effetto eseguite con precisione chirurgica, mentre la sezione ritmica tesse tappeti sonori intricati e mai banali. Chiude lo spettacolo I Of The Storm, estratta direttamente dall'ultima uscita a nome Psychotic Waltz, quel A Social Grace che mise la parola fine ad una band dall'enorme spessore artistico.
Durante il concerto della band, il cantante ha anche fatto intonare al pubblico un augurio di buon compleanno per il chitarrista Brian McAlpin, il quale dalla sua sedia a rotelle ringrazia accoratamente per il pensiero.
I molti intervenuti che non conoscevano il nome di questa leggendaria band americana hanno avuto una graditissima sorpresa nel constatare quanto la proposta del quintetto fosse di proprio gradimento ed ora manca solo il passaggio successivo: un nuovo album in studio. Grande ritorno per un gruppo immenso.
Setlist
Ashes
Haze One
Into The Everflow
Morbid
Halo of Thorns
Nothing
I of The Storm
Nevermore
È giunto il momento dei primi headliner della serata, i quali salgono sul palco temporaneamente orfani del bassista Jim Sheppard, sostituito dalla bella Dagna Silesia che già ha collaborato per il disco solista del cantante Warrel Dane. Altro elemento di novità è il secondo chitarrista Attila Vörös, anch'egli mutuato dalla formazione che ha registrato l'album del biondo singer americano. Proprio Dane è stato l'indiscusso protagonista dello show con una prestazione vocale nitida e precisa ed una tenuta del palco davvero invidiabile.
Analizzando la scaletta della band si può facilmente notare come i Nevermore abbiano scelto di privilegiare l'ultimo nato e, più in generale, di tralasciare del tutto il primo periodo della propria carriera. Tale scelta ha fatto certamente discutere i fan della prima ora, ma avendo a disposizione tempi limitati si è rivelata un'opzione volta a far emergere l'attuale direzione musicale del gruppo originario di Seattle. Grandi acclamazioni per The Heart Collector e la conclusiva Enemies Of Reality, la quale ha visto l'invasione del palco da parte di una dozzina di fan delle prime file, i quali hanno pacificamente tributato i loro beniamini da molto vicino. Da urlo anche le ultime nate The Termination Proclamation e Moonrise (Through Mirrors Of Death), così come le più datate Born e This Godless Endeavor, le quali mettono in mostra una band coesa e guidata dalla classe di Jeff Loomis, un chitarrista di grande talento che sa mettere la propria tecnica al servizio dei brani.
Anche in occasione dei Nevermore viene festeggiato un compleanno, cioè quello di Warrel Dane, oggi quarantaduenne con annesso coro da parte del pubblico veramente caldo e stipato nelle prime file. Ai cinque va anche il pregio di aver scatenato l'unico accenno di pogo della serata, merito che va ricercato anche nella violenza sonora espressa dalle loro canzoni.
Va detto che replicare o superare la carica di un concerto del genere è cosa non da poco, quindi i Symphony X hanno un grave fardello sulle proprie teste, cioè quello di non deludere le aspettative create dallo show dei Nevermore, forse il migliore della serata.
Setlist
Inside Four Walls
Moonrise (Through Mirrors of Death)
The Termination Proclamation
Your Poison Throne
Born
The Heart Collector
The River Dragon Has Come
Emptiness Unobstructed
This Godless Endeavor
Enemies of Reality
Symphony X
Ed ecco quindi arrivare il momento che molti aspettavano: il concerto dei Symphony X. Una delle prime cose che si notano durante il lungo cambio palco è il ricambio del pubblico: coloro i quali hanno seguito lo show dei Nevermore lasciano spazio ai fan della prog-power metal band del New Jersey. I continui slittamenti della data di uscita di Iconoclast, nuovo aldum dei Symphony X, li hanno portati ad imbarcarsi in questo tour senza uscite da promuovere, ma c'è stato anche spazio per due inediti estratti proprio dal disco di prossima pubblicazione.
Si comincia con Of Sins And Shadows, il classico pezzo fatto per essere suonato dal vivo e che ha il potere di introdurre in maniera estremamente potente la band. Sin da subito si nota come il singer Russell Allen sia in grandissima forma con una voce più aggressiva rispetto a quello che si può ascoltare nei dischi in studio. Nemmeno il tempo di scambiare qualche battuta ed arrivano in rapida successione Domination e The Serpent's Kiss, altri due pezzi da novanta che introducono il primo brano inedito della serata, dal titolo End Of Innocence. La canzone si staglia su ritmiche tipiche dei Symphony X e non presenta, ad un primo e superficiale ascolto, particolari spunti di novità per l'economia del gruppo. I fan delle ultime opere possono dormire sonni tranquilli, quindi.
Si prosegue fino ad arrivare a quello che, personalmente, ritengo l'highlight della serata, cioè Evolution (The Grand Design) che scatena una risposta da parte del pubblico di enorme gradimento. Subito dopo viene presentato il secondo pezzo inedito, Dehumanized, il quale è introdotto da un riffing piuttosto serrato e propone un Russell Allen estremamente aggressivo. La serata si conclude con Sea Of Fate, encore che riscuote notevoli consensi da parte dell'Alcatraz ed un ritorno di Warrel Dane sul palco per dare una mano ad Allen ad incitare il pubblico, nonché per celebrare nuovamente il suo ed il terzo compleanno della serata, quello del chitarrista Michael Romeo, il quale il giorno prima ha compiuto 43 anni.
I Symphony X hanno regalato ai propri fan un'esibizione di grande spessore artistico, che è stata in grado di eguagliare l'energia sprigionata dai Nevermore, cosa veramente non da tutti. Ora non resta che attendere il nuovo disco, sperando che il livello delle composizioni sia quello intravisto questa sera grazie ai due brani nuovi.
Setlist
Of Sins And Shadows
Domination
The Serpent's Kiss
End Of Innocence [Nuova]
Paradise Lost
Inferno (Unleash the Fire)
Evolution (The Grand Design)
Dehumanized [Nuova]
Set the World on Fire (The Lie of Lies)
Sea Of Fate
Il bilancio complessivo di questa serata meneghina è quello di un mini-festival riuscitissimo proprio perché in grado di accostare più generi e di accontentare quasi tutti. Il potere del metal sta anche in queste “riunioni di famiglia” allargate ai cultori delle diverse sfumature della nostra musica preferita e l'atmosfera di festa respirata all'Alcatraz di Milano è stata veramente piacevole, come una rimpatriata tra vecchi amici.
Andrea 'Thy Destroyer' Rodella
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Serata davvero particolarissima quella messa in pista lo scorso venerdì al Rock n’Roll Arena di Romagnano Sesia, teatro sempre più organizzato e convincente d’interessanti eventi in ambito rock e metal.
Tematiche horror, suoni selvaggi e look vistoso, sono stati, infatti, gli argomenti principali dello show, seconda tappa del mini tour italiano che ha visto un’accoppiata decisamente chiassosa e sopra le righe condividere il palco: gli italiani Superhorrorfuck e gli svedesi Ragdolls, binomio di band accomunate non solo dal medesimo approccio musicale, ma anche da etichetta e nuove uscite discografiche, per entrambi giunte nel corso degli ultimi mesi.
L’accogliente arena valsesiana nell’occasione non ha purtroppo ospitato una particolare affluenza di pubblico, scarso sin dalle prime battute del concerto e via via sempre meno folto con il trascorrere delle ore, unico motivo di rammarico per un’esibizione che, salvo alcune piccole pecche, ha mostrato grande professionalità da parte dei musicisti ed un profilo comunque godibile e carico di divertimento.
Live report a cura di Fabio Vellata
Sono circa le 23.00, un orario alquanto “notturno”, quando gli amplificatori iniziano a diffondere il classico fruscio, preludio dell’inizio del concerto. L’apertura è affidata alla colorita compagine veneta dei Superhorrorfuck, gruppo fautore di un acceso glam rock dai risvolti molto spesso umoristici e sfacciati, da poco in circolazione con un nuovissimo full length intitolato “Livingeadstars”. Il perno della band, in piena evidenza sin dagli istanti iniziali, è il blasfemo ed esagitato folletto Dr.Freak, frontman forse non benedetto da corde vocali eccelse, ma dotato di notevole carisma e di una debordante verve da buttare senza riserve sulle assi del palco.
Il pubblico è poco ed il calore degli applausi minimo: dettagli certo non insignificanti, ma non tali da minare la fiducia e la voglia di suonare del quintetto, protagonista di una performance che, grazie ad un’attitudine votata al divertimento più puro, si rivela grintosa e “gasata” esattamente come si converrebbe al cospetto di una ben più vasta platea.
Immediatamente nel “vivo dell’azione”, la band veronese scatena il proprio carico di follia lirica e sguaiato rock n’roll in piena scioltezza, fornendo l’impressione di un nucleo di musicisti che, più d’ogni altra cosa, ama prendere in considerazione l’aspetto spassoso e burlesco della questione musicale.
Incentrata su gran parte dei brani del recente “Livingdeadstars”, l’esibizione mette in risalto la discreta confidenza strumentale e la personalità del bassista Mr*4, buon alter-ego del singer Dr.Freak e del chitarrista ritmico Sergent Anubis. Molto più in ombra il solista Paghalloween, elemento, tra tutti, in possesso della tecnica migliore, ma davvero troppo defilato sulla scena, quasi timido nel mostrarsi in piena luce ed agli scatti delle macchine fotografiche. “Welcome To My F***k Show”, “Livingdeadstars”, l’allucinante inno alla necrofilia “Lick You To Death” e le irriverenti e beffarde “Pissing on Heaven’s Door” e “Holy Zombie”, i passaggi salienti di uno show cui non mancano uno spiritosissimo intermezzo in stile “pubblicità progresso” e l’esuberante cover di “Hot n’Cold” di Katy Perry, pezzo già apprezzato su disco che rivela, in questa vivace versione glam punk, un notevole impatto anche in sede live.
Il duetto finale - il brano dei Frankenstein Drag Queens From Planet 13, “Mr. Motherfucker” - intonato in compagnia del singer dei Ragdolls, Vikki Violence, è la conclusione di uno show gradevole e di buon livello, non impreziosito da vette di particolare grandiosità ma al quale divertimento, suoni ad alto voltaggio ed un minimo di giocosa follia, hanno conferito i contorni di un ottimo diversivo in una serata altrimenti un po’ spenta.
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Breve intermezzo per un veloce allestimento del palco e qualche cambio microfono ed ecco comparire sulla scena il manipolo di musicisti svedesi guidati dal singer Vikki Violence, già dal look, uniforme per tutti i membri (una trasandatissima mise a strisce lunga sino al ginocchio, calze a rete, anfibi e face painting “cadaverico” ), lascia intendere l’animo e le peculiarità del quartetto scandinavo, un misto tra Misfits, Alice Cooper e Murderdolls.
Quasi in perfetta sincronia con l’ora delle streghe, le 24.00, le asce di mr. Violence e del sodale Damaged L. danno il via allo spettacolo, inaugurato, come su album, dall’intro “One Foot In The Grave”, subito seguita dalla tambureggiante “Beautiful Homicide” e da “Zombie Slammer”, esclusivo estratto dal primissimo EP ”Drink, Dig, Die” realizzato nel 2010.
L’impatto del gruppo con la visione di una platea semi deserta sulle prime non pare essere confortante ma, come già sperimentato con i Superhorrorfuck, nemmeno un freno di particolare spessore allo svolgimento di uno show energico e vigoroso. Unica probabile defaillance sembra di tanto in tanto provenire dalla voce del frontman, talvolta apparsa un po’ in sofferenza e sopraffatta dai violenti riff rock n’roll prodotti dalle chitarre. Acquisita ad ogni modo un po’ di fiducia e maturato qualche applauso da un audience ridotta seppure, in alcuni frangenti, decisamente calorosa, la band snocciola una prestazione più che onorevole, saccheggiando quasi per intero il disco di debutto “Dead Girls Don’t Say No”. “Halloween Night”, “House Of Horror” e “Gravediggers Dance” come già su album, confermano lo status di momenti migliori anche dal vivo, lasciando il ruolo di curioso diversivo allo stravolto rifacimento in versione hard rock di “Bad Romance”, celeberrimo tormentone dell’insopportabile Lady GaGa.
Con la chiusura affidata all’ottima “Michelle”, altro pezzo forte del recente debutto, ed una veloce fuga dietro le quinte, il gruppo porta a termine un’esibizione anche questa volta interessante, mostrando tuttavia un minimo di disappunto per i pochi partecipanti ormai diminuiti a qualche sparuta unità, tanto da eliminare senza repliche il previsto e classico bis di fine serata.
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Un evento piacevole, come sempre molto ben organizzato dalla Rock n’Roll Arena, sebbene beneficiato da una scarsissima affluenza per due band ancora poco conosciute, comunque meritevoli di applausi per la professionalità dimostrata nell’accettare una sala semideserta ed una limitata partecipazione.
Il rock è anche questo: non perdersi d’animo nemmeno in situazioni di difficoltà oggettiva, soprattutto quando il percorso è appena agli inizi. Del resto, fatte le dovute ed inevitabili proporzioni, anche i Beatles si trovarono ad esibirsi, ad inizio carriera, al cospetto di trenta / quaranta persone a sera.
Per questa volta ci accontentiamo di uno spettacolo che ci ha divertito in ogni caso, portando alla ribalta un acoppiata dall’attitudine smodatamente glam - hard rock e dal valore, in termini di resa, senz'altro ragguardevole
Fortune e sold out, considerando stile e proposta, prima o poi arriveranno.
Setlist:
Intro
Beautiful Homicide
Zombie-Slammer
Shut Up And Drink
Halloween Night
I'm A Werewolf
Bad Romance
Gravediggers Dance
House Of Horror
Michelle
Sono trascorsi nove lunghissimi anni dall’ultima apparizione in suolo italico dei Rhapsody Of Fire e tutti i supporter della band triestina quando è stato annunciato il nuovo tour, sono andati in visibilio. Finalmente i nostri “mighty warriors” tornano sulla scena live e lo fanno per tre date qui in Italia. Ecco a voi il report delle due serate tenutesi a Roma e Milano.
Report e foto di Roma a cura di Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro
Report di Milano a cura di Stefano Vianello.
Foto e chiosa finale a cura di Stefano "Steven Rich" Ricetti
Roma, Atlantico 26-02-2011
Grandissima era l’attesa per questo tour tanto sospirato dai fan dei Rhapsody of Fire e dalla stessa band friulana che, forte anche delle ultime fortunate pubblicazioni sotto l’egida della Nuclear Blast, ha potuto finalmente riguadagnare le sponde del biondo Tevere, dopo quasi 10 anni, con uno show tutto suo, per poter dimostrare il suo valore anche dal vivo.
L’assembramento di pubblico alle porte dell’Atlantico era già discreto all’ora dell’apertura ed il numero di spade (seppur di cartone) sequestrate ed ammassate sul pavimento dagli uomini della sicurezza prometteva un’ideale intensa battaglia in arrivo.
L’apertura della serata era affidata ai Vexillum. Freschi di contratto con la MyGraveyard Production ed ancor più di studio di registrazione, dal quale hanno da poco tirato fuori il loro debutto ufficiale, la band toscana ha buttato sul palco tutta la carica e l’entusiasmo che portava in corpo, sfoderando una prova davvero scintillante e coinvolgente.
Fieri di gridare la propria italianità, i cinque, autori di un epic metal molto snello e compatto, hanno coinvolto alla grande l’audience romana con i brani di The wandering notes ma, ancor più, con l’estrema verve che Galdor e compagni hanno saputo dimostrare davanti ad una platea così importante e difficile. Platea che, ad un certo punto, cantava Avalon a squarcia gola, dimostrando grande apprezzamento e rispetto per la musica che ha potuto ascoltare in poco più di mezz’ora di spettacolo. Grandi applausi hanno accompagnato l’uscita del primo gruppo di casa della serata.
Meno convincente, a mio avviso, la prova degli austriaci Visions of Atlantis, band più esperta e longeva rispetto ai suoi predecessori che non ha saputo però raccogliere i suoi stessi onori.
Vecchi persecutori di quella tendenza nightwishiana, che vide nascere, qualche anno fa, decine di gruppi di power sinfonico, con le tipiche venature gothic regalate da una voce femminile affiancata ad una maschile, si sono presentati davanti ad una platea che, da subito, non li ha visti di buon’occhio.
L’aspetto goffo del cantante Mario Plank ed i soliti elegantissimi apprezzamenti nei confronti della formosa Maxi Nil hanno avuto il potere di creare un contrasto decisivo alla mia indole da buon ascoltatore, indirizzando in maniera ancor più convinta la mia prevenzione nei confronti del loro sound.
In realtà, il concerto dei Visions of Atlantis non è stato in grado di stimolare moltissimo un’audience che, già dopo il primo brano in scaletta, chiamava a gran voce gli headliner della serata; cosa, è bene segnalarlo, mai fatta con il gruppo precedente. Una proposta piuttosto banale e monotona nelle sonorità non è riuscita a scalfire più di tanto la curiosità di fan anche molto giovani che erano poco interessati al loro tipo di proposta.
La volontà, i sei, ce l’hanno pure messa ma non sono serviti né i vecchi brani né i nuovi estratti dal recentissimo Delta a farli rimpiangere troppo, una volta usciti di scena. Purtroppo per loro hanno fatto solo da riempitivo qui a Roma.
Ed eccoci al piatto forte: i Rhapsody of Fire, qui ancora invocati semplicemente come Rhapsody. Dopo l’epica introduzione che si attendeva, estratta da Dar-Kunor, un tripudio di luci accecanti ha fatto strada a Fabio Lione e truppa, partiti subito forte sulle note di Triumph of Agony.
Con negli occhi la soddisfazione di vedere l’apprezzamento dei propri connazionali per il lavoro di una vita Luca Turilli, Alex Staropoli e tutti gli altri, sono subito sembrati in uno stato di forma eccellente e, soprattutto, fortemente vogliosi di dare il meglio di sé in questa serata capitolina. Le parole del frontman, alla fine di questa prima esecuzione, non lasciavano dubbi in tal senso: i Rhapsody of Fire erano lì per lasciare il segno.
Si sono susseguiti dunque calibri pesanti tratti dal recente passato del gruppo; Knightrider of Doom e la coinvolgente The Village of Dwarves hanno preceduto degnamente il primo estratto dall’ultimo The Frozen Tears of Angels, Sea of Fate che, sistemata saggiamente in una posizione abbastanza avanzata in scaletta, ha raccolto consensi anche indipendentemente dal suo reale valore rispetto alle altre già citate. Guardiani del destino ha regalato un coro sentito e potente da parte di tutta una platea che, in realtà, si era fatta sentire in più di una occasione, dimostrando di conoscere a memoria anche le più impercettibili citazioni in latino celate nei lunghi e complessi testi della band, i cui sample registrati venivano riproposti per l’occasione dall’impianto. Anche quest’ultimo aspetto ha contribuito a dare a me, personalmente, una certa impressione di freddezza da parte dei Rhapsody sul palco: musicisti straordinari che risultano talmente perfetti e professionali da rasentare una ben visibile puntigliosità. In più di una occasione, questa loro poca fantasia a livello di presenza scenica o, se vogliamo, questo eccessivo perfezionismo, che gli impedisce di uscire troppo dagli schemi nelle situazione dal vivo, mi ha dato l’impressione di stare ascoltando esattamente e pedissequamente ciò che è inciso sui loro dischi.
Tutto ciò non riguarda di certo il buon Fabio Lione, il cui indiscusso valore istrionico si è misurato soprattutto nei momenti di pausa tra un pezzo e l’altro, quando il biondo crinito cantante si è lasciato andare a qualche, seppur programmato, intermezzo da karaoke con il pubblico. Niente di eccezionale, certo, ma certamente questa sua dote, unita ad una buona capacità di interagire con l’audience ed all’immancabile potenza vocale che lo ha sempre contraddistinto, fa capire, senza dubbio, che lui sarà sempre uno degli elementi più imprescindibili del combo.
Tornando al concerto, si è continuato a viaggiare su alti livelli grazie anche a chicche che portano il nome, per esempio, di Land of Immortals, inattesa quanto acclamata hit del primissimo lavoro Legendary Tales e ad altri pezzi da 90 come Dawn of Victory, Holy Thunderforce, Unholy Warcry, per non parlare dell’altro atteso momento evocativo donato da Lamento Eroico, primo pezzo in italiano della storia della band. Non sono mancati i solo di entrambi i validissimi componenti della sessione ritmica, il ben noto batterista tedesco Alex Holzwarth ed il sempre sorprendente bassista Patrice Guers. La frangia straniera dei Rhapsody of Fire, includendo anche il “gregario di lusso” Dominique Leurquin, ha dato prova ancora una volta di meritare il consenso tributatogli ed ha dimostrato, ancora una volta, di essere ormai davvero parte integrante del progetto.
Altri due estratti dal nuovo album: On The Way to Ainor e Reign of Terror hanno rinfrescato ulteriormente una scaletta zeppa di grandi classici che non poteva non chiudersi con quello che, probabilmente, è stato il primo vero grande successo della band, l’impetuosa Emerald Sword.
La chiusura strumentale, con finale “plastico”, di tutti i componenti, che rimanevano immobili con i loro strumenti fino allo spegnimento delle luci sul palco, ha concluso una serata che ha fatto brillare gli occhi sia dei fan accorsi qui, sia degli stessi fondatori storici dei Rhapsody, Turilli e Staropoli, usciti visibilmente soddisfatti dallo show.
Quello appena terminato è stato un concerto che ci ha restituito una band in piena forma e vogliosa di continuare su una strada che sembrava doversi interrompere solo pochi anni fa; un gruppo forse un po’ freddo per i gusti di qualcuno ma, comunque la pensiate, certamente un esempio di come anche il metal italiano possa mostrare un altissimo livello e competere con chiunque in Europa, e i tanti fan provenienti anche dall’estero ed entusiasti di questa intensa ora e mezzo di show erano qui a dimostrarlo.
Setlist:
Dar-Kunor
Triumph of Agony
Knightrider of Doom
The Village of Dwarves
Sea of Fate
Guardiani del Destino
Land of Immortals
On The Way to Ainor
Tharos Holy Rage – Drum Solo
Dawn of Victory
Lamento Eroico
Holy Thunderforce
Dark Prophecy – Bass Solo
Unholy Warcry
The March of The Swordmaster
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Reign of Terror
Emerald Sword
Milano, Alcatraz - 28/02/2011
Vexillum
L’arduo compito di aprire la serata spetta ai Vexillum, giovane band toscana agli esordi. Nonostante la fresca età, il gruppo ha dato alle stampe un ottimo disco di debutto, nel quale miscela power metal a inserti folk e epic. Il sound non sarà certo dei più originali, ma questi cinque ragazzi sul palco ci sanno fare: abbigliati tutti rigorosamente in kilt corrono avanti e indietro sul palco trascinando la folla come pochi gruppi spalla riescono a fare. Nella mezz’ora a disposizione, i Vexillum suonano brani estratti dal loro album d’erodio The Wandering Notes, tra i quali spiccano l’epica Avalon e la conclusiva The Traveller. Buona la prestazione vocale del cantante Dario Vallesi, anche se intorno al quarto brano della scaletta si è percepito chiaramente un calo della voce, probabilmente dovuto ai molti acuti fatti fino a quel momento. I suoni, piuttosto impastati sulle ritmiche dei primi brani, verso la fine dello show migliorano e contribuiscono alla piena riuscita del concerto. Simpatici e disponibili, i Vexillum finito lo spettacolo si sono buttati in mezzo alla folla per godere appieno dell’atmosfera della serata. Una band promettente da seguire assolutamente!
Visions Of Atlantis
Non si può dire invece la stessa cosa dei Vexillum per i Visions Of Atlantis. La band già dai primi brani proposti non riesce a convincere più di tanto il pubblico a causa probabilmente della proposta musicale ormai troppo inflazionata in un genere che ha bisogno di aria fresca per risollevarsi il morale. Il power sinfonico con doppia voce, maschile e femminile del combo austriaco non riesce a trascinare la platea come ci si aspetterebbe, risultando piuttosto monotono e senza esaltare più di tanto. Tecnicamente ineccepibili vengono proposti ben dieci brani, forse troppi, che pescano dall’intera discografia compreso l’ultimo lavoro Delta uscito da pochi giorni sul mercato.
Sarà un’impressione del sottoscritto, ma i vari membri dei Visions Of Atlantis sul palco danno una sensazione di poca omogeneità: il look decisamente gothic della cantante Maxi Nil, fa a pugni con lo stile emo del chitarrista Wener Fiedler che contrasta a sua volta con quello da classico metallaro del bassista. Insomma la senzazione è quella di un gruppo preconfezionato e poco adatto alla serata in questione. Il pubblico probabilmente è stato della mia stessa idea perché dopo una manciata di canzoni già invocava a gran voce il nome dei beniamini della serata che da lì a poco sarebbero saliti sul palco.
Rhapsody Of Fire
Erano anni che aspettavo l’occasione di poter vedere in sede live i Rhapsody Of Fire e finalmente intorno alle 21:15 ecco che le luci dell’Alcatraz si spengono e sotto i riflettori arriva la band accompagnata dall’intro musicale Dar-Kunor. Il boato della folla che accoglie i propri beniamini riempie il locale e un Fabio Lione in grandissima forma inizia la sua performance canora. Triumph Or Agony è il brano designato all’apertura, forse una scelta non propriamente consona vista la quantità di canzoni nettamente superiori in discografia: l’audio nei primi minuti non è dei migliori, le chitarre sono quasi inesistenti, totalmente sepolte dalla marea di orchestrazioni; verso il finale però si può già apprezzare un netto miglioramento. Una grinta non da poco quella sfoderata dalla band triestina che viene ripagata a suon di cori e incitamenti da parte di tutti i fan.
Lione non risparmia le forze e subito delizia tutti con una fantastica Knightrider Of Doom, subito seguita da The Village Of Dwarves. Alex Holzwarth alla batteria e Patrice Guers al basso sono due pilastri insostituibili, tecnici e precisi, plasmano la sezione ritmica nel migliore dei modi e per tutta la serata rimarranno protagonisti indiscussi: loro sono infatti anche gli intermezzi solisti posizionati sapientemente verso metà e fine scaletta per poter far riprendere fiato al buon Fabio. Alex Staropoli dietro alla sua tastiera fa il suo dovere senza esagerare in pose “plastiche”, a differenza dell’amico di sempre Luca Turilli che, tra uno sweep e l’altro, corre avanti e indietro sul palco. Probabilmente è questo andare e venire che in qualche occasione rovina la precisione degli assoli, ma sinceramente, lo spettacolo è talmente coinvolgente che si può benissimo ignorare queste piccole imperfezioni. Ottima la resa live dei pezzi presenti sull’ultimo album The Frozen Tears Of Angels proposti, ovvero Sea Of Fate e On The Way To Ainor, così come gli immortali brani del passato tipo Land Of Immortals.
Dopo l’assolo di batteria i nostri tornano alla carica con una devastante Dawn Of Victory che, con il suo coro cantato all’unisono da tutti gli spettatori, fa quasi tremare i muri dell’Alcatraz.
Fabio Lione, tra un brano e l’altro, non si risparmia in elogi su quanto sia caldo il pubblico italiano e ne ha ben ragione: pochi concerti hanno un coinvolgimento e una risposta così grande da parte dei fan come quella che questa sera hanno riscosso i Rhapsody. Vengono proposte quindi in sequenza una commovente Lamento Eroico e una ormai intramontabile Holy Thunderforce. L’apice però, a detta di chi scrive, viene raggiunto, prima dei bis di rito, con The March Of The Swordmaster, brano che scatena letteralmente ogni persona accorsa nel locale in cori a perdifiato con tanto di ovazione nel finale.
Dopo una brevissima pausa, i nostri tornano sul palco per proporre la loro canzone più estrema, Reign Of Terror, dove Lione passa da urla e scream da blackster a un cantato pulito con una semplicità disarmante, come stesse bevendo un bicchier d’acqua: questa è la prova definitiva di quanto possa essere versatile la sua voce, una delle migliori in assoluto nel genere metal.
In conclusione di questo fantastico concerto non poteva mancare la canzone che meglio rappresenta la storia dei Rhapsody Of Fire, Emerald Sword: si fa quasi fatica a distinguere la voce del singer toscano tra le voci della folla che lo accompagna dall’inizio alla fine del brano.
Una serata davvero indimenticabile quella di lunedì, un concerto pressoché perfetto a degna conclusione del tour europeo che i nostri hanno appena terminato. Non resta quindi che aspettare il nuovo disco che, pare, vedrà la luce quest’estate e sperare un ritorno a suonare dal vivo altrettanto veloce. Bentornati Rhapsody!
Setlist:
1. Dar-Kunor (intro)
2. Triumph Or Agony
3. Knightrider Of Doom
4. The Village Of Dwarves
5. Sea Of Fate
6. Guardiani Del Destino
7. Land Of Immortals
8. On The Way To Ainor
(Drum Solo)
9. Dawn Of Victory
10. Lamento Eroico
11. Holy Thunderforce
(Bass Solo)
12. Unholy Warcry
13. The March Of The Swordmaster
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14. Reign Of Terror
15. Emerald Sword
16. The Angels’ Dark Revelation (Outro)
Rhapsody Of Fire - Riflessioni.
Grande band, grande pubblico, grande festa. I Rhapsody Of Fire riscattano un passato altalenante in sede live sul suolo italico con una prova superba che li pone ai più alti livelli di competitività internazionale.
Concerto entusiasmante, scaletta ben articolata, feedback caloroso e appassionato da parte dei presenti.
Lo show dei triestini “allargati” – non nel senso biblico ma in quello geografico – che si è consumato in quel dell’Alcatraz di Via Valtellina a Meneghinia ha avuto il sapore di quegli eventi che rimarranno scolpiti nel tempo e dei quali si continuerà a narrare negli anni a venire.
La classica notte che per un musicista vale una carriera.
Adrenalina a 1000.
Mediolanum capta est (Mayhem docet).
Stefano “Steven Rich” Ricetti
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Report e foto a cura di Stefano "Elrond" Vianello
Milano, Alcatraz - 27/02/2011
Sono le 17.30 quando arrivo all’Alcatraz e da subito rimango impressionato dalla lunghissima fila di fan che attende con trepidazione l’apertura dei cancelli. I biglietti sono ormai esauriti da mesi per lo show che questa sera vedrà apparire sul palco milanese una delle band finlandesi più amate del power metal, i Sonata Arctica. Con alle spalle un concerto, quello del 25 novembre 2009, tutto da dimenticare, la band finnica prova a farsi perdonare con uno show di quasi due ore. Ma andiamo per gradi cominciando dai gruppi di supporto che sono stati una gran sorpresa (i 4 Th Dimansion) e una consolidata conferma (i Labyrinth).
4Th Dimension
La band vicentina con il debut album The White Path To Rebirth appena dato alle stampe sale sul palco intorno alle 19.15 mentre l’Alcatraz sta ancora accogliendo l’ingresso degli spettatori. Senza indugi i 4Th Dimension sfoderano tutta la loro grinta partendo alla grande con i propri pezzi. Un sound che ricorda band come Freedom Call, Stratovarius e quello che proponevano agli esordi i Sonata Arctica, si lascia ascoltare piacevolmente. Nonostante i suoni non siano ancora perfetti, il gruppo riesce a scaldare il pubblico già presente in sala.
A causa del poco tempo a disposizione, circa venticinque minuti, vengono proposte una manciata di brani estratti appunto dal disco di debutto, tra i quali spiccano Goldeneyes, Everlasting e l’ottima Angel's Call. Tanto di cappello allo scopritore e produttore di questi cinque ragazzi Alessio Lucatti che, nella veste si “talent scout”, sta portando alla luce dei riflettori diverse realtà underground da tenere assolutamente in considerazione nel prossimo futuro.
Labyrinth
Dopo la breve pausa per il cambio palco ecco arrivare sotto i riflettori i Labyrinth. La band senza il tastierista Andrea De Paoli ha colmato il vuoto grazie all’aiuto offerto dall’amico Alessio Lucatti, preso in prestito dai Vision Divine. Anche per la band di Olaf Thorsen e Roberto Tiranti il tempo è tiranno: solo quaranta minuti a disposizione, che vengono comunque sfruttati al meglio. Il brano di riscaldamento è l’ormai amatissima dal pubblico The Shooting Star estratta dall’ultimo disco Return To Heaven Denied pt. 2; il gruppo è in gran forma e il pubblico non lesina in cori di apprezzamento e scapocciate forsennate. Una dietro l’altra le canzoni vengono proposte alla platea dagli animi caldi, In The Shade, A Chance, New Horizon, Sailors of Time e l’ultima acclamatissima Moonlight.
Un Roberto Tiranti in gran forma trascina il pubblico in estasi e grazie alle doppie voci e cori campionati, ogni canzone aumenta decisamente la resa.
Quaranta minuti davvero intensi e apprezzati dalla sala che applaude e acclama a gran voce il nome dei Labyrinth, che nell’ultimo anno stanno portando alta la bandiera del metal tricolore in giro per tutta Europa.
Sonata Arctica
Dopo trenta minuti di trepida attesa ecco finalmente salire sul palco i Sonata Arctica. L’Alcatraz ormai colmata la propria capienza, li accoglie con un boato di urla e applausi. La band non indugia e subito si lancia alla carica con un tris estratto dall’ultimo album: Flag In The Ground, The Last Amazing Grays e Juliet. Tony Kakko questa volta sembra in gran forma e sfodera una prestazione vocale decisamente migliore rispetto all’ultima calata in quel di Milano. Tutto il gruppo si lascia trascinare dalla folla decisamente calorosa e la ripaga con una doppietta d’eccezione, una meravigliosa Replica e una strabordante Blank File che da troppo tempo non veniva più proposta dal vivo: anche se diversi acuti, presenti sul disco, vengono astutamente fatti cantare dai fan o presi decisamente a tonalità più basse, i brani in questione hanno un tiro micidiale e ci fanno ricordare quanto i Sonata Arctica siano stati fino a qualche tempo fa una band con gli “attributi”.
Parlo al passato perché, a parte qualche sporadico episodio, i live del combo finnico (questo, ma anche quello precendente qui in Italia) si stanno lentamente appiattendo: tutte le canzoni veloci e tirate che fanno da sempre impazzire i fan (tra cui il sottoscritto) sono scomparse dalle setlist per lasciare spazio ai nuovi brani mid-tempo o lenti che, per quanto siano piacevoli, non raggiungono minimamente il livello di quelli del passato. Una nota di delusione poi, è il fatto che in tutta la scaletta non sia stato dato spazio neanche per un brano estratto da Silence e alla fine di tutto il concerto ciò ha inciso parecchio sulla soddisfazione di chi ha comprato il biglietto per l’evento.
Dopo alcune altre canzoni tra cui Victoria’s Secret, Fullmoon e un’emozionante The Misery, i nostri si fermano un istante per lasciare al pubblico una sorta di “regalo” per farsi perdonare la mancata registrazione del DVD: tutti i membri, tranne Tommy Portimo, imbracciano una chitarra acustica e insieme danno vita ad una jam acustica di tutto rispetto. Vengono proposte in successione Mary Lou, Shy e Letter to Dana. Bello ed emozionante, ma anche qui forse si poteva dedicare un po’ meno tempo al set acustico per da spazio a vecchie glorie ormai cadute nel dimenticatoio.
Infine, a conclusione di questo live, vengono suonate Caleb e la sempre apprezzata Don’t Say A Word.
Quasi due ore di show per i Sonata Arctica in quel dell’Alcatraz a Milano, suonate alla perfezione, non bastano a sciogliere il dubbio che ormai da un paio di album a questa parte tormenta gran parte degli ascoltatori, ovvero quanto si stia indebolendo la proposta musicale della band. Ora non rimane che aspettare questo famigerato DVD e sperare che per la data di registrazione la scaletta venga un pochino risistemata.
Setlist:
01. Everything Fades To Gray (Intro)
02. Flag In The Ground
03. The Last Amazing Grays
04. Juliet
05. Replica
06. Blank File
07. As If The World Wasn't Ending
08. Paid in Full
09. Victoria's Secret
10. Instrumental
11. The Misery
12. Fullmoon
13. In Black and White
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14. Runaway (acoustic) (cover)
15. Mary-Lou (acoustic)
16. Shy (acoustic)
17. Letter to Dana (acoustic)
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18. Caleb
19. Don't Say A Word
20. Vodka/Everything Fades To Gray (Outro)
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[post_date_gmt] => 2011-02-19 11:00:00
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Poche luci e qualche ombra di troppo in quel di Bologna, in occasione della seconda data italiana degli Angra per questo "Aqua Tour 2011". La formazione brasiliana, come ben vedremo più avanti, da una parte ha confermato di essere su livelli altissimi (e che tanti altri loro colleghi si sognano) se teniamo conto della prova di un Ricardo Confessori preciso al millimetro dietro le pelli, più ovviamente l'assoluta garanzia della coppia Loureiro/Bittencourt alle sei corde; d'altro canto invece, la preoccupazione maggiore è arrivata da un Edu Falaschi in affanno sui pezzi recenti e, onestamente, a dir poco imbarazzante sul repertorio più datato. Non è andata meglio con i connazionali Kattah, band che, esclusi i problemi audio iniziali, non ha esaltato più di tanto. Lodevole, in ogni caso, la prestazione del singer Roni Sauaf, bravo a farsi valere dietro al microfono, al contrario di una sezione ritmica che non convince tantissimo, per poi rovinare tutto sedendosi dietro le pelli in occasione di un brano interamente strumentale: se il cantante brasiliano con la voce ci sa fare, senza comunque far gridare al miracolo, con le bacchette in mano riesce solamente a rovinare uno show già poco entusiasmante di suo.
Angelo D'Acunto
Report a cura di Lorenzo Bacega
Foto a cura di Angelo D'Acunto
Ore 23 circa: con qualche minuto di ritardo sulla tabella di marcia, si spengono le luci dell'Estragon, parte l'intro Viderunt Te Aque e ha inizio il concerto degli Angra. Supportato da suoni tutto sommato all'altezza della situazione – solamente per metà dell'iniziale Arising Thunder la voce viene completamente sovrastata da tutti gli altri strumenti – il quintetto di San Paolo, reduce dalla pubblicazione del settimo studio album ufficiale (intitolato Aqua, dato alle stampe lo scorso settembre tramite SPV Records), si destreggia sul palco in maniera sicuramente ottimale, offrendo in pasto ai presenti una prova oltremodo solida, assolutamente precisa sotto il profilo esecutivo e più che convincente a livello di presenza scenica. Le note dolenti arrivano però dal cantante Edu Falaschi, incappato, per usare un eufemismo, in una vera e propria serata no: il frontman brasiliano, da sempre oggetto di aspre critiche da parte dei fan più conservatori, si rende infatti protagonista in questa occasione di una prestazione assolutamente scadente e costellata da una lunghissima serie di imprecisioni ed errori di sorta, risultando estremamente carente tanto sugli immancabili classici dell'era Matos, quanto, soprattutto, sui pezzi più recenti. La scaletta proposta nel corso dello spettacolo si concentra prevalentemente sull'ultima fatica del gruppo, dal quale vengono estratti brani del calibro di Arising Thunder, Awake from Darkness, Lease of Life e The Rage of the Waters; non viene tutta via tralasciato il resto della discografia, qui rappresentato dalle varie Spread your Fire (proveniente da Temple of Shadows, 2004), Angels Cry (estratta dall'omonimo album, 1993), Lisbon (direttamente da Fireworks, 1997) oppure dalla solita Nothing to Say (da Holy Land, 1995). Da sottolineare inoltre la strepitosa riproposizione di The Voice Commanding You (comparsa su Aurora Consurgens, 2006), in questa occasione davvero ben interpretata da Rafael Bittencourt al microfono e accolta in maniera molto positiva dal poco (ma ugualmente rumoroso) pubblico presente. Chiusura affidata all'accoppiata Carry On / Nova Era, che conclude uno show nel complesso abbastanza deludente e poco incisivo.
Inizia con un gelido “venerdì da leoni” l’annata 2011 al New Age club di Treviso. All’insegna del metal più estremo e intransigente, ecco sul palco i veterani Nile dal South Carolina; una band dal successo in continua ascesa, complice l’uscita della loro ultima fatica discografica “Those whom the God Detest” targata Nuclear Blast. La release li ha proiettati nell’universo delle band più acclamate ed amate in tutto il globo, ricevendo ampi consensi da pubblico e critica.
La serata è stata una tra le più attese d’inizio anno ed ha creato un certo fermento nello spirito di colui vi scrive questo report, giacchè reputo i Nile una band di grandissimo spessore nonchè, artisticamente parlando, ineccepibile sotto ogni punto di vista! I cancelli aprono in anticipo, attorno le ore 20 causa un clima gelido e a tratti ostile che ha spinto i pochi presenti fin’ora giunti a richiedere un caldo rifugio e, sopratutto, ad approfittarsi delle prime fila, quelle che garantiscono uno spettacolo mozzafiato.
Nella sala semi deserta ci appostiamo in vista dei preparativi e all’incirca alle ore 20.40, sale sul palco l'opener band, gli svizzeri Darkrise che con il loro death metal groovy dall’incedere meccanico (filo Strapping Young Lad) hanno avuto l’arduo compito di riscaldare l’atmosfera. Come spetta ad ogni band minore, il responso è stato una pista vuota e un feedback azzerato. Questo non ha aiutato i nostri a poter dar vita ad uno show coinvoilgente ma, sebbene nelle difficoltà, questa giovane band ha saputo mostrare i denti.
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Dieci minuti di cambio palco ci separano dall’inizio della performance degli svedesi Zonaria, band da Umea. La line-up, che negli ultimi 2 anni ha saputo ritagliarsi un ruolo di rilievo partecipando a tour di prestigio supportando bands come Dark Funeral, Vader, Septic Flesh, Satyricon, prosegue gli show a supporto dell'ultima release “Cancer Empire” (Century Media). Autori di un black-death votato ai mid tempo rocciosi e con una venatura sinfonica, i nostri assestano una setlist di un buon livello seppur risulta palese una certa mancanza di esperienza e dimestichezza.
Lo show è dinamico, pesca a piene mani dal loro ultimo album e pesca dai brani del precedente “Infamy and the Breed”. Il climax del New Age inizia a risentire di mancata spinta e la musica del combo svedese alla lunga risulta troppo ripetitiva, finendo per assonnare l’audience. Mentre il concerto s’appresta a volgere al termine, si iniza a intravvedere un incremento di astanti, segno tangibile che molti ancora devono arrivare.
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Mentre mi appropinquavo al banco per arraffare una birra al fine di contrastare la calura che pian piano inizia a svilupparsi all’interno del locale, sul palco si stanno preparando ad entrare in scena i teutonici Dew-Scented, ragazzi originari di Braunschweig e autori di un furibondo thrash metal venato di death ad altissimo tasso adrenalinico.
Oramai veterani dei palchi di tutta Europa, otto studio album all'attivo e una carriera con altissimi picchi qualitativi, i nostri, con l’autentica furia di una tigre, prendono posizione pronti a dare in pasto agli astanti tonnellate di metallo iracondo e fumante dalla prima all’ultima nota, risvegliando così la statica situazione fin poco prima dominante.
Come proiettili infuocati i nostri sparano brani dal loro ultimo lavoro “Invocation” sotto l’egida della lungimirante Nuclear Blast, passando da una “Turn to Ash” (refrain scuoti ossa) a “That’s why I despise you”, per poi ripescare brani dai precendi lavori come “Inwards”,”Impact”. L’ensamble dà vita ad una mosh pit devastante e il pubblico sembra apprezzare pienamente. Una sana dose d’energia coadiuvata i quarantacinque minuti di pura violenza sopraffina dove il quintetto non fa prigionieri e il sottoscritto ha potuto assaporare con somma soddisfazione l’effetto che provoca l’impatto di una parete di cemento da dieci tonnellate in piena faccia! Promossi a pieni voti!
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Il New Age si fa man mano sempre più gremito e la calura inizia a farsi sentire in maniera consistente. Tolto giubbotto e maglia, assisto al breve line-check dei demoni mesopotamici Melechesh, band che con l’ultima fatica “Epigenesis”, rilasciata sempre da Nuclear Blast, ha raggiunto lo status di band di culto. Negli ultimi anni i risultati hanno dato risultato positivo. I loro sforzi sono stati ripagati data l'attenzione manifestata da pubblico e stampa del globo. Coraggio e perseveranza sono le parole chiave dei Melechesh, precursori di una via concettuale e musicale non sempre facile e digeribile dal fan medio di metal estremo; le sfuriate black metal, unite al groove del thrash, vanno a caratterizzare una musica tipica mediorientale che i nostri han ben sintetizzato, rendendola quanto meno fresca e riconoscibile.
Dopo 15 minuti di soundcheck l’intro segnala l’inizio della performance della band con la trascinante “Triangular tattvic fire”, direttamente dalla loro ultima fatica. L’atmosfera si fa davvero plumbea e palpabile, un pezzo evocativo ricco di pathos quanto catchy che si lascia ascoltare per poi dare spazio al singolo del loro prossimo video clip “Grand Gathas of Baal Sin”, canzone costituita da un refrain di retaggio black/thrash costituito da un riffing velenoso sostenuto da una doppia cassa martellante. il tutto è ricamato a sangue dallo screaming di un Ashmedi acido ed indiavolato, carismatico e sapiente come ogni frontman di rilievo. Si prosegue con “Mystic of the Pillars”, “Sacred Geometry”, passando per la trascinante “Deluge of Delusional Dreams” tratta dall’ottimo “Emissaries”.
Nonostante la buona volontà di Ashmedi e soci il pubblico sembra non apprezzare molto il sound, forse troppo ostico alle orecchio di chi è avvezzo a pane e brutalità! Chiude la setlist la magistrale e furibonda “Rebirth of the Nemesis (Enuma Elish Rewritten)” con il suo blast-beat al fulmicotone. La percezione è che lo show non sia stato apprezzato a tutto tondo. Per quanto riguarda il sottoscritto, la band ha saputo regalare attimi di intensa atmosfera, elemento che spesso, nella musica estrema degli ultimi anni, viene a mancare. Pollice alto quindi per l’istrionico Ashmedi e la sua ciurma.
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Tempo per i preparativi ovvero il consueto cambio palco e il fermento per l’imminente performance dei mitici Nile si fa sentire! La configurazione on-stage è cambiata: Mr.Toler Wade lascia il microfono centrale al nuovo (ma solo di conferma) Chris Lollis al basso e voce principale, ma il risultato non cambia: furia e maestria si uniscono per dar vita a brani di elevatissimo spessore per gusto compositivo e tecnica, elementi che han reso il combo di Greenville uno degli alfieri del death metal più apprezzati ed osannati al mondo!
Ad le danze ci pensa una minacciosa intro, preludo alla potentissima opener “Kafir” tratta dall'ultima perla “Those whom the God Detest”. La canzone lascia senza fiato e riesce a catapultare magicamente l’ascoltatore nelle furiose guerre dell’antico Egitto. I due axe man sfoderano una pioggia tagliente di scale dal retrogusto “faraonico” sorrette dal funambolico drumming del greco George Kollias, vero e proprio martello pneumatico dietro al kit.
Lasciatemelo dire, è impressionante la disinvoltura e precisione con cui l’ellenico innanella le varie strutture ritmiche, passando da pattern dal sapore tribale ai blast beat al fulmicotone per non dimenticare una doppia cassa al cardiopalma!
Un Lollis mattatore annuncia la successiva “Sacrifice unto Sebek”, pezzo tratto dal monumentale “Annihilation of the Wicked”. Chitarre di basalto caratterizzano questa traccia. I gong in background lasciano spazio alle sfuriate di batteria che s’intrecciano a trame chitarristiche mai banali e con un groove trascinante. Il pubblico sembra davvero sentirsi a suo agio tanto da lanciarsi in un selvaggio pogo.
Spietati carnefici, i nostri continuano la loro “battaglia” con la colossale “Hittite dung of Incantation” introdotta dal macina cadaveri Kollias. Il quartetto non lascia prigionieri. Una velocità spaventosa ed una chirurgica esecuzione caratterizza il brano, incentrato su di una vera e propria slavina di scale e solo disarmanti; Karl Sanders e DallasToler Wade son due autentici guitar heroes del death metal in grado di fondere tra loro un livello tecnico impressionante con una caratura compositiva che rende ogni singola sfumatura un piccolo tassello di un gran capolavoro.
Il pubblico affamato acclama i nostri con ovazioni da stadio e i Nile rincarano la dose con “Permitting the Noble Dead to Descend to the Underworld” che certifica l'operato di una band coesa al 100% sia in termini di feeling, sia di coordinazione strumentale: veri orologi svizzeri in grado di deflagrare ed estasiare. Si prosegue con “4th Arra Dagon” sempre tratta dal ultima fatica discografica. Il refrain epico e catacombale che la caratterizza stimola gli astanti sull’anthemico chorus ”ARRA ARRA ARRA DAGON DAGON DAGON,ARRA ARRA ARRA DAGON DAGON DAGON”, forte come un urlo di battaglia risuonava ovunque impietoso. Dopo un momento di encore meritatissimo la tenebrosa “Sarcophagus” intona le sue prime note e subito un boato riecheggia possente e maestoso, minaccioso quanto affascinante, come un cobra che traccia il suo sentiero strisciando nelle sabbie di un deserto senza tempo! L’epicismo antemico non termina qui. È il turno di “Ithiphallic” dall’omonimo platter del 2007. Subito dopo arriva “Laying fire upon Apep”. Non poteva mancare il masterpiece “Lashed to the slave stick”.
Ma non è finita. I Nile sorprendono ancora una volta tutti riproponendo una traccia oramai data per dispersa o seppellita negli eterni oceani di sabbia del magnifico e seminale “Amongst the Catacombs of Nephren-Ka”, primo full lenght nella storia del combo americano che diede loro il cosidetto “battesimo di fuoco” nel panorama del metal estremo mondiale. Ci stiamo riferendo a “Serpent Headed Mask”, uno dei brani meglio riusciti ed efficaci partoriti dalla prima incarnazione della band e poi riproposto per il tour in questione in chiave più attuale e rivisitata, grazie anche a molti anni d’esperienza alle spalle.
L’impavido Chris Lollis annuncia l’ultima canzone dello show; il pubblico oramai in delirio adulatorio urla le proprie richieste, ma a chiudere un lotto, a dir poco devastante, è proprio lei, la celebre “Black seeds of Vengeance”. La title track del disco che fece la fortuna della band di Sanders e soci nell’ormai lontano 2000, appare come una tempesta secolare di sabbia. La bufera avvolge gli astanti con vorace furia omicida; li travolge e sconvolge un New Age oramai "schiavizzato". La serata si conclude e tra sudore ed ossa rotte.
Live Report di Saxon, Crimes Of Passion e Vanderbuyst all’Alcatraz di Milano il 22 maggio 2011.
VANDERBUYST
Mezzora di gloria sulle assi dell’Alcatraz di Via Valtellina a Milano per gli olandesi Vanderbuyst, forti del debutto omonimo del 2010, che deliziano il pubblico presente dalle 19.30 fino a quasi le 20 e danno appuntamento per un meet’n’greet vicino allo stand del merchandising dei Saxon dopo la fine del concerto di questi ultimi. L’accostamento con il tour degli Stallions di Sheffield sarà frutto di logiche evidentemente diverse ma è bello pensare che il Loro Hard Rock metallizzato tardo anni Settanta faccia da preludio al concerto degli inglesi tanta è l’affinità fra la proposta musicale di Jochen Jonkman e soci e quanto contenuto nell’eponimo “Saxon” del 1979. Energia e voglia di fare con un buon riscontro da parte dei presenti, un buon biglietto da visita per un gruppo con la terra sotto i piedi e il giusto atteggiamento.
CRIMES OF PASSION
Dopo un solo quarto d’ora si appropriano dello stage i Crimes of Passion da Sheffield, un album uscito nel 2008 intitolato RIP in bacheca e un cantante, Dale, molto assomigliante al chitarrista J.L. Battaglion dei Raf, beninteso ai tempi d'oro e con venti chili di capelli in più rispetto a oggi. Pose plastiche a go-gò da parte del Nostro e una buona prestazione di robusto Hard’n’Heavy per quanto attiene l’impatto globale degli uomini provenienti dallo Yorkshire, scaldando a sufficienza gli astanti che, minuto dopo minuto, divengono sempre più numerosi, senza peraltro far gridare al miracolo a fine serata. La cover di Holy Diver chiude la Loro performance alle 20.45.
SAXON
Ore 21.12. Il grande momento arriva accompagnato dall’intro che lancia la nuovissima Hammer Of The Gods, veloce opener anche del disco Call To Arms, perfettamente in linea con la pulizia del suono che negli anni è divenuta il trademark dei Saxon capitanati da Biff Byford e Paul Quinn. Che l’headbanging abbia inizio, quindi, corroborato dalla successiva e sempre incredibile Heavy Metal Thunder, un manifesto non solo degli Stallions Of The Highway di Sheffield ma di tutto l’HM mondiale.
A seguire Never Surrender, con il buon Biff che da vecchio marpione se la cava alla grande nel momento in cui perde qualche battuta per il suo solito concedersi troppo al pubblico. Altra mazzata HM di IMMENSA PORTATA con la sempiterna Motorcycle Man e ulteriore assaggio da Call To Arms nelle note di Back to ’79, che anticipa l’effetto-concerto di Denim&Leather di un’ora buona. I’ve Got To Rock (To Stay Alive) significa Saxon meet Ac/Dc e infatti il pubblico reagisce alla grande, soprattutto nella Sua forte componente femminile. Poi atmosfera da brivido con un uno-due costituito dall’epica Dallas 1 PM ma soprattutto dalla title track del nuovo album Call To Arms: magnetica, enfatica, insomma perfetta per un concerto con il cuore in mano. Biff coinvolto al massimo. Pelle d’oca.
Pronta rottura dell’incantesimo a opera della prima vera sorpresa della serata: Rock’N’Roll Gypsy dall’album Innocence Is No Excuse del 1985. Evitabile Demon Sweeney Todd poi adrenalina pura attraverso And The Bands Played On e a seguire un pezzo che i Saxon si tengono esclusivamente per Italia, Grecia e Spagna: Ride Like The Wind.
Cadenza marziale in The Eagle Has Landed, poi la coinvolgente new entryChasing The Bullet e altro coniglio estratto dal cilindro per via di Play It Loud, direttamente dal giurassico superiore delle scalette italiane dei Saxon. A chiudere quasi due ore di concerto in totale classiconi a non finire della valenza di Denim And Leather, Princess Of The Night, Crusader, 747 Strangers In The Night, Strong Arm Of The Law e la “coconesggiante” Wheels Of Steel intervallati dai solo di Nibbs, Doug e qualche breve pausa dietro le quinte da parte di tutti e cinque. Innumerevoli gli Osanna e i cori di incitamento da parte del pubblico, con qualche variazione al classico “Saxon, Saxon, Saxon”, tanto che Byford a un certo punto non sa più nemmeno cosa rispondere, ridendoci sopra.
La notte dell’Alcatraz conferma ancora una volta che l’Aquila Britannica continua a veleggiare alta nei cieli che lambiscono le somme vette dell’Olimpo dell’heavy metal e non ne vuole sapere di abbassarsi di quota. I Nostri riescono ancora, magicamente, a radunare attorno a sé brufoli e zampe di gallina senza distinzioni di sorta confermando una trasversalità anagrafica che è segno di vigore e appartenenza al proprio tempo.
HM purissimo e Rock’N’Roll metallizzato: la ricetta giusta dei Saxon da trentadue anni a questa parte, una vera forza della natura. E’ ancora lontana la pensione per gli Stallions Of The Highway e stavolta l’Inps non c’entra nulla.
Sax-on!
Stefano "Steven Rich" Ricetti
Tutte le foto del Report sono a cura di Paolo Manzi (www.paolomanzi.it)