
Nonostante il desiderio massimo di poter apprezzare live la macchina da guerra di Stanne e compari, era personalmente molta anche la curiosità di saggiare dal vivo lo charme goticheggiante degli storici Tristania, seminale band norvegese attiva da più di tre lustri.
Con un certo disappunto, abbiamo però dovuto constatare quanto le speranze covate prima dell’entrata in scena del gruppo – avvenuta intorno alle 21.50 – si siano poi rivelate illusorie: troppi i rimestamenti in line up occorsi negli anni, per consentire ad Anders Hilde – unico superstite della formazione originaria presente questa sera – e compagni, di mantenere intatto lo spirito ed il fascino costruito nelle prime uscite discografiche.
Quella che si presenta sul palco è, in effetti, una band quasi totalmente diversa e snaturata dalla personalità degli esordi. Se tuttavia, la “nostra” Mariangela Demurtas, deliziosa e preparatissima singer originaria di Ozieri (Sassari) ha saputo dimostrarsi abile nel non far troppo rimpiangere la grande Vibeke Stene, non così è apparso per il resto del gruppo, primo fra tutti Kietjil Nordhus, imponente quanto statico frontman.
Un po’ “fermi” e non troppo coinvolgenti, i Tristania hanno senza dubbio mostrato una buona empatia con l’audience in occasione dei brani più diretti e performanti, procurando invece qualche sbadiglio nell’esecuzione dei pezzi maggiormente articolati.
Alternanza di più voci, brani talora eccessivamente prolissi ed un atteggiamento non proprio dinamico sul palco, hanno delineato i contorni di un’esibizione “ordinata” ma non certo da ricordare.
Performance apprezzabile anche se nella norma, insomma: impossibile non sottolineare come, ad oggi, il combo norvegese debba gran parte del proprio appeal alla presenza di miss Demurtas, singer in grado si aggiungere un bel po’ di fascino ad un nome storico del panorama goth che, altrimenti, rischierebbe l’inevitabile discesa nell’anonimato.

Morti. Scomparsi. Defunti. Decaduti. Ormai privi di mordente.
Della creatura di Stanne si è detto, negli ultimi anni, un po’ di tutto, spesso in termini ben lontani dall’essere lusinghieri.
Reduce da una recente uscita discografica piuttosto altalenante e contraddittoria, il leggendario combo svedese era atteso dal pubblico italiano – tra i più affezionati da sempre – ad una prova d’orgoglio almeno dal vivo, territorio in cui i Dark Tranquillity hanno quasi sempre offerto prestazioni di livello assoluto.
E per somma fortuna, questa volta nessuna delusione e nessun motivo per cui – a posteriori – potersi lamentare: quelli saliti sul palco la sera del 22 novembre sono musicisti dagli attributi cubitali, capaci di arpionare l’audience con cattiveria, potenza, fiumi di grinta e pure un pizzico di simpatia. Come a dire che si può suonare violento death metal swedish style (sempre con molta melodia, ovvio) ed ugualmente mantenere il sorriso, la verve ed il desiderio di familiarizzare con il pubblico come ad una festa collettiva.
Curiosa la formazione disposta ora on stage senza la presenza del defezionario bassista Daniel Antonsson, le cui parti risultano assorbite da arrangiamenti e soluzioni campionate: nessun contraccolpo scenico, ne sonoro, al punto da apparire particolare quasi secondario e trascurabile.
Alle ore 23.00, dopo una lunga attesa accompagnata da un’insopportabile sottofondo “house-tunz-tunz”, lo show deflagra ed il gruppo, accompagnato da giochi di luci di grande impatto, attacca sparando a tutto volume “The Science Of Noise” uno dei pezzi del nuovo “Construct”. Alcuni attimi di studio e l’audience è già quasi totalmente soggiogata: “White Noise/Black Silence” arriva come un maglio a distruggere qualsiasi resistenza, instradando lo spettacolo su binari di completo ed assoluto godimento.
Scaletta condita da sorprese e novità quella prevista per i convenuti all’Arena valsesiana: come mai accaduto prima, l’occasione del ventennale della band è stata, infatti, propizia per l’esecuzione di un brano assolutamente straordinario, prelevato dall’enorme esordio del 1993 (“Skydancer”).
“A Bolt Of Blazing Gold”, presentato con la collaborazione di Mariangela Demurtas, ha avuto effetti quasi onirici per il sottoscritto, costretto a ritornare con la memoria all’epoca dell’acquisto del primo album e dei suoi reiterati ascolti, conditi dalla profonda convinzione – già allora – di aver scoperto una band eccellente.
In una setlist decisamente lunga - a sfiorare l’ora e cinquanta di durata - non sono comunque mancati estratti dall’intera discografia della band: una grandiosa “Punish My Heaven”, dall’altrettanto magnifico “The Gallery”, “The Mundane And The Magic” (ancora con miss Demurtas a supporto) dall’ottimo “Fiction”, la superba “The Wonders At Your Feet” (da “Haven”) e la terrificante “Lost To Apathy”, tra i momenti migliori del concerto, sublimato nel grande riff portante della stupenda “Thereln”, unica traccia proveniente da “Projector”.
Dopo un’esibizione intensa, totale e ricca di soddisfazioni, Stanne e compagni si congedano concedendo il classico bis con la deliziosa “Lethe”, ulteriore piccola sorpresa per i numerosissimi convenuti.
Band pressoché perfetta, suoni di buona qualità - pur se con la voce un po’ “annegata” nelle prime battute – spettacolo di luci di grande impatto e grandissima cornice di pubblico, sono stati gli ingredienti di un successo certamente atteso, ma non in questa debordante misura.
Solo qualche cedimento per la voce “metallica” del frontman nel finale, bilanciata da una prestazione maiuscola del resto della band (magnifici in particolare Henriksson e Sundin, concentrati per tutta la durata dello show nel confezionare tonnellate di riff ed accordi), gli ultimi commenti ad un serata dai contorni memorabili, senza ombra di dubbio, da annoverare tra le cose migliori viste on stage dal sottoscritto in tanti anni di frequentazione.
Magari discutibili su disco. Inarrestabili e superiori dal vivo…
Setlist:
01. The Science Of Noise
02. White Noise/Black Silence
03. What Only You Know
04. The Fatalist
05. The Silence In Between
06. Zero Distance
07. A Bolt Of Blazing Gold (feat. Mariangela Demurtas)
08. The Mundane And The Magic (feat. Mariangela Demurtas)
09. Punish My Heaven
10. The Wonders At Your Feet
11. Indifferent Suns
12. Iridium
13. Terminus (Where Death Is Most Alive)
14. State Of Trust
15. Endtime Hearts
16. ThereIn
17. Lost To Apathy
18. Misery’s Crown
Encore:
19. Lethe
Report e foto a cura di Fabio Vellata.
Dark Tranquillity + Tristania – Pinarella di Cervia 23/11/13
Sebbene i tonanti cieli mentitori in lontananza siano carichi di tempesta, nonostante le temperature che si sono fatte improvvisamente glaciali, sono numerosi i manipoli di metallari del centro-sud convenuti in terra romagnola, all’ingresso del Rock Planet di Pinarella di Cervia, come in un oscuro pellegrinaggio. Sotto la pioggia, i più. Fermi. Immobili. Ma c’è un’aria reverenziale, quasi religiosa in quell’attesa, mentre sempre più numerose si fanno le schiere di “fedeli” convenuti all’evento.
I cancelli aprono puntualmente alle ore 22.00, ed in pochi minuti la sala è piena per metà, ed il flusso sembra costante. Le dimensioni del Rock Planet sono sì modeste, ma di questi tempi di crisi ed “assenteismo ingiustificato” di metallari sotto i palchi il numero di presenze già dai primi minuti può dirsi sorprendente.
Ma forse è un’illusione ottica, forse è soltanto l’ora tarda, considerato che stasera suonano solo due band e che non c’è nessun gruppo minore ad intrattenere mentre la fame di Dark Tranquillity si fa via via più bestiale, anche considerato il digiuno forzato dalla cancellazione del tour europeo “Metal Attack over Europe” dell’anno scorso.

Non passano che pochi minuti ed ecco i norvegesi Tristania salire sul palco. Non li vedevo on stage da diverso tempo, tanto che ormai potrebbe trattarsi di un’altra band, considerati i travagliati avvicendamenti di lineup negli ultimi anni che ne hanno caratterizzato una vera e propria palingenesi. La setlist consta di una manciata di brani dalla durata abbastanza consistente, principalmente provenienti dall’ultimo lavoro “Darkest White”: un album in cui la band sembra aver trovato una buona alchimia, come ben evidenziato nella nostra recensione; forse non ai livelli degli esordi con la talentuosa voce operistica di Vibeke Stene ma di certo degna di nota nel panorama gothic. Orbene, l’impressione da studio si fa più forte alla luce della prestazione live: brani come “Number” o la titletrack “Darkest White” si impongono con l’austera freddezza che è marchio di fabrica della band.
Freddezza che purtroppo ha anche un rovescio della medaglia. In primo luogo, per quanto incisivi possano essere i nuovi brani, la band arranca prevedibilmente sui ‘classici’: le prepotenti campionature e la palese difformità tra la vecchia e la nuova formazione non rendono facile il lavoro dei norvegesi che sembrano talvolta una cover band di sé stessi (del passato).
Ma a trasparire in negativo, purtroppo, è proprio la staticità sul (modesto) palco dei membri della band. La chitarrista Gyri Smørdal Losnegaard sembra assorta nei suoi pensieri di viaggi caraibici (o almeno così mi è parso), il più temerario è il bassista 'baffo' Ole Vistnes col suo headbanging incessante. Ma il più grande disorientamento, almeno per il pubblico, è la presenza/assenza ciclica dei vocalist: si palesa infatti un continuo andirivieni alternato tra un pezzo e l’altro del grande (in senso meramente fisico) Kjetil Nordhus e della nostra connazionale Mariangela Demurtas, tanto che ci si chiede chi prendere come punto di riferimento.
Sebbene non abbia osato neppure troppo in patria con le esortazioni al pubblico, è proprio la Demurtas la vera curiosità dello show: convincente e pienamente consapevole della pesante eredità della Stene, la giovane sarda fa la sua parte con grande disinvoltura – tanto che la sua ottima performance ci fornisce buone ragioni per ricordare con tiepida soddisfazione lo spettacolo offerto, conclusosi con “The Year of the Rat”, celebre opener di “Rubicon”.

“Ci siamo”. Quando la batteria è stata liberata dalla sua prigione di plastica, il soundcheck è terminato e gli schermi alle spalle del palco si sintonizzano sulle tonalità di Construct non ci sono più dubbi: sarà l’inizio di uno show memorabile.
A differenza delle produzioni enormi che caratterizzano le band più importanti del panorama, nel nostro caso (per fortuna) le animazioni video invero non sono che un piacevole contorno allo spettacolo vero e proprio che si palesa dinanzi ai nostri occhi. Sulle note dell’opener “The Science of Noise” si presenta infatti un Mikael Stanne in gran forma, mentre il pubblico esaltato salta a piè pari il riscaldamento e si lancia impetuoso nel flusso delle note proposto dalla band.
Per ammissione della stessa band, lo show apre con un botta e risposta tra brani del nuovo album (“The Science of Noise”, “What Only You Know”, “The Silence in Between”) a classici del recente passato, dal grande Damage Done (“White Noise/Black Silence”) al più controverso We Are the Void (“The Fatalist”), fino al recente “Zero Distance”.
Come previsto da copione a circa 1/3 dello spettacolo entra in scena con grande classe la Demurtas che poc’anzi ci ha deliziato con i Tristania, stavolta in tenuta più aggressiva (per così dire...) per duettare con Mikael nella leggendaria “A Bolt of Blazing Gold” del lontano 1993 ed “UnDo Control”. Mi sarebbe piaciuto sentire anche “The Mundane And The Magic”, ma a quanto pare il privilegio è spettato agli amici di Romagnano (e non a noialtri della Romagna).
Terminata la parentesi duetto, Stanne sembra essere un po’ affaticato, ma la performance procede con il crescente apporto del pubblico, sempre pronto a gridare il nome dei propri beniamini tra un pezzo e l’altro, a dar loro l'energia. Stranamente l’assenza del(l'ex) bassista Daniel Antonsson non si fa sentire per tutta la durata del concerto, quasi un vantaggio ergonomico per gli incroci sul palco delle due chitarre e di uno Stanne irrefrenabile, considerate le ristrette dimensioni dell’area.
Poco il lavoro 'verbale' del frontman tra un pezzo e l’altro, le grida dei fan si fanno sovente troppo alte ed il buon Mikael malcela un certo, timido imbarazzo misto ad autocompiacimento nel sentire un pubblico tanto accalorato e pronto ad esaltare i propri eroi: l’Italia si riconferma la vera patria della band. In un paio di occasioni si segnalano anche un paio di crowdsurfing per Stanne, senza contare le incursioni della band sempre sugli scudi e sempre a cercare il pubblico in un oscuro, caldissimo abbraccio.
Dopo le cantatissime e tanto reclamate dalla platea “ThereIn” e “Misery's Crown” la band lascia la scena. Il pubblico chiama a gran voce di nuovo i nostri per il bis, mentre già pregusta il finale col botto, tanto che le due ore segnate sull’orologio dall’inizio del concerto sembrano quasi volate, ed il freddo patito per entrare è ormai un tiepido ricordo. Ecco allora rientrare la band per “Lethe” e “Lost To Apathy”, quest’ultima a riempire la curiosa mancanza di rappresentanti da Character.
Grande soddisfazione per la serata negli occhi degli astanti, e nonostante la ritrosia di alcuni elementi della band (quel buon nerd di Martin Brändström ha dribblato i fan con l’eleganza di Messi), Mikael Stanne è rimasto con grande umiltà a firmare autografi e discutere con i fan fino a serata inoltrata, gesto che fa apprezzare ulteriormente una band ormai destinata a riempire le pagine della storia del death metal melodico, con particolare merito al pubblico italiano, consuetamente presente in gran numero col corpo, con l’anima e con la voce agli show proposti dalla leggendaria band svedese.
Setlist:
01. The Science of Noise
02. White Noise/Black Silence
03. What Only You Know
04. The Fatalist
05. The Silence in Between
06. Zero Distance
07. A Bolt of Blazing Gold (con Mariangela Demurtas)
08. UnDo Control (con Mariangela Demurtas)
09. Monochromatic Stains
10. The Wonders at Your Feet
11. Indifferent Suns
12. Silence, and the Firmament Withdrew
13. Terminus (Where Death Is Most Alive)
14. State of Trust
15. Endtime Hearts
16. ThereIn
17. Misery's Crown
Encore:
18. Lethe
19. Lost to Apathy
Report a cura di Luca "Montsteen" Montini.
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A presto col report completo della serata.
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A presto col report completo della serata.
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DEATH ANGEL + EXTREMA + DEW-SCENTED + ADIMIRON
29/11/2013 @Circolo Colony, Brescia (BS)

Causa impegni lavorativi arriviamo un po’ tardi e riusciamo ad assistere solo agli ultimi minuti dello show dei romani Adimiron, quel tanto che basta per avere in ogni caso una buona impressione dal punto di vista dell’attitudine da parte dell’opening act della serata, intento ad esibirsi di fronte ad un pubblico ancora sparuto e in buona parte concentrato sulle tipologie di birra offerte dal locale.
In attesa dell’entrata in scena di Dew-Scented abbiamo in ogni caso modo di ambientarci tra le mura del nuovo Colony, costretto a traslocare da Travagliato in quel di Brescia a causa di ben note liti con le autorità locali. La nuova location è peraltro piuttosto insolita; non tanto dal punto di vista geografico/urbanistico (si tratta di un capannone nella zona industriale nella zona di Brescia Est, come accade nove volte su dieci anche a Milano e a Bergamo), quanto piuttosto per la natura del locale: un ex strip club con divanetti e specchi e con pavimenti e soffitti a scacchiera. A primo impatto piuttosto spiazzante; ma pazienza, siamo qui per la musica, non per disquisire di arredamento d’interni e tra poco ne vedremo certamente delle belle!

Poco prima delle 21:00 salgono sul palco i tedeschi Dew-Scented, band di purissimo (e durissimo) thrash metal old school capitanata dall’energico ma soprendentemente cordiale Leif Jensen. I teutonici sono in giro ormai da parecchio ed in effetti il loro show è decisamente professionale e privo di sbavature; il livello tecnico esecutivo dei cinque thrasher è davvero elevatissimo e la loro grande carica viene interamente riversata su di un pubblico che mostra di gradire (e non poco!) l’impegno e la grande energia profusi. A dirla tutta, e come più volte rimarcato anche in sede di recensione, il vero tallone d’Achille dei Dew-Scented è una certa piattezza di fondo, ravvisabile tanto nel rifferama (ultraclassico e piuttosto uniforme), quanto nelle vocals (un urlato sì potente e graffiante quanto alla lunga un po’ monocorde) e nella struttura canzone (pochi cambi d’umore, pochissimi assoli, nessuna escursione in territori non propriamente “raging thrash”). Eppure, come detto, i presenti hanno dimostrato estremo gradimento per vere e proprie mazzate come "Sworn To Obey", "Turn To Ash" e "Storm Within" (tratte dall'ultimo "Icarus") cui si alternano cavalli di battaglia come le ormai classiche "Cities Of The Dead" e "Acts Of Rage" (da "Impact"). Tutti pezzi sui quali la suddetta monotonia viene parzialmente mascherata da una potenza esecutiva assolutamente non indifferente, rendendo lo spettacolo, quindi, un più che degno riscaldamento in vista dei “big”.
Setlist:
01. Sworn to Obey
02. Turn To Ash
03. Cities of the Dead
04. Confronting Entropy
05. Never to Return
06. Storm Within
07. Soul Poison
08. Acts of Rage

Alle 22 e 15 tocca ai nostrani Extrema, promossi (come raccontato da GL Perotti in persona) in seconda posizione nel cartellone della serata di casa grazie alla disponibilità dei Dew-Scented e, quindi, autori di una setlist più lunga rispetto a quella proposta nel resto del tour. L’apertura è affidata (come d’altronde buona parte della scaletta) ad un brano estratto dall’ultimo “The Seed Of Foolishness“, l’ottima “Between The Lines”; seguono a grande velocità (seppur con qualche intermezzo parlato di troppo, ma con GL non è una novità) altri brani nuovi e molto ben riusciti come "Again And Again", “Pyre Of Fire”, "The Distance" e la spettacolare "The Politics", alternati a vecchi classici come la sempreverde “Money Talks” (benissimo accolta da un pubblico in visibilio), "Selfishness" e "From The '80s" (entrambe da "Pound For Pound") e "Join Hands" (dal mitico "Tension At The Seams"). Peccato per la totale esclusione di "Set The World On Fire", neppure un estratto, e per un certo calo di voce da parte del Perotti, udibile in particolare su "The Distance"; Perotti che ad ogni modo si scusa per la “voce in cantina” e non si risparmia nel caricare il pubblico, facendo cantare più di un ritornello alle prime file e lanciandosi addirittura in uno spericolato body surfing. Gli Extrema sono una garanzia, live come su disco, e lo show di stasera, pur non esente dalle leggere pecche di cui sopra, è lì dimostrarlo, così come l’elevato grado di convolgimento da parte dei presenti.
Setlist:
01. Between The Lines
02. Deep Infection
03. Selfishness
04. Again and Again
05. Pyre of Fire
06. The Distance
07. The Politics
08. Join Hands
09. Money Talks
10. From The 80's

Ore 23 e 30 ed è un pezzo di storia del thrash metal, quello che si accinge a salire sul palco del
Colony di Brescia: i californiani
Death Angel. La band di origini filippine fa irruzione sulle note di "Left For Dead", opener del nuovissimo (e molto riuscito) "
The Dream Calls For Blood", ed è subito delirio: la voce di
Mark Osegueda è acuta e tagliente come un rasoio, il basso e la batteria spingono che è un piacere e le due chitarre colpiscono con l’energia di un autotreno e, nel contempo, con la precisione di un bisturi. Compatti e letali le leggende tramandano insomma.
Come preventivabile, grande spazio alle canzoni che compongono il nuovo album e, visto il valore delle stesse, nessuno può dirsi in alcun modo deluso. Brani come la citata “Left For Dead” e “Son Of the Morning” (una doppietta iniziale davvero al cardiopalma) hanno tutte le carte in regola per sfondare cuori e timpani, e non sfigurano in alcun modo (anzi) allorché frammiste a vecchi classici come "Mistress Of Pain" (dall'ormai leggendario "
The Ultra Violence") o “Seemingly Endless Time” (da "
Act III" l’unica su cui
Osegueda dà qualche segno di cedimento andando a zoppicare un po’ sul refrain). Tutto funziona pressoché alla perfezione: dall'attitudine dei cinque, alla resa fonica (ottimi, a proposito, i suoni lungo tutto l'arco della serata), sicché al pubblico ora più numericamente più consistente (seppur lontano da cifre realmente entusiasmanti) non resta che godersi lo spettacolo. Spettacolo la cui riuscita va ascritta equamente a tutti i protagonisti, con menzione speciale per il già citato
Osegueda e per il fenomenale
Rob Cavestany, uno dei chitarristi più bravi ed efficaci sulla piazza.
La scaletta prosgue nel segno dell'ultimo nato, dal quale vengono estratte le cattivissime "Succubus "e "Execution-Don't Save Me", ma c'è spazio anche per brani tratti da "
Relentless Retribution" ("Claws In So Deep"), "
The Art Of Dying" ("Thicker Than Blood") e "
Killing Season" (Sonic Beatdown"), tutti eseguiti in maniera impeccabile e senza cedimenti di sorta. Dopo una piccola pausa durante la quale il piccolo ma tostissimo cantante approfitta per riprendere fiato e presentare i compagni d’arme (
Rob Cavestany e
Ted Aguilar alle chitarre,
Damien Sisson al basso e
Will Carroll alla batteria), i
Death Angel escono e poi tornano in campo per un “encore” di quelli da mandare a memoria. All’iniziale "Lord of Hate" succedono, infatti, l’acclamatissima "Lord Of Hate", "Truce" e la conclusiva "Thrown To The Wolves", sulla cui coda si innesta l'acclamatissima "The Ultra Violence".
Setlist:
01. Left for Dead
02. Son of the Morning
03. Mistress of Pain
04. Fallen
05. Relentless Revolution
06. Claws In So Deep
07. The Dream Calls for Blood
08. Seemingly Endless Time
09. Succubus
10. Execution - Don't Save Me
11. Thicker Than Blood
12. Sonic Beatdown
13. Caster of Shame
Encore:
14. Lord of Hate
15. Truce
16. Thrown To The Wolves / The Ultra Violence
Al tirar delle somme, un concerto davvero memorabile, di quelli che contribuiscono a tenere ben viva la fiamma dell'Heavy Metal (in senso lato, of course); il tutto grazie ad un pugno di band compatte, affiatate e capaci di dar vita, ognuna a modo proprio, ad uno spettacolo di elevata qualità. Avercene di serate così...
Live Report a cura di Stefano Burini
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Airbourne + Black Spiders + Corroded
Alcatraz Milano @ 14 novembre 2013
Stasera all’Alcatraz, si prospetta una serata all’insegna dell’hard rock più sfrenato, il palco B verrà nuovamente calcato dai mitici Airbourne, che promuovono il loro terzo lavoro “Blach Dog Barking”. All’apertura cancelli è già presente un nutrito numero di fan, dai rocchettari vecchio stampo ai più giovani, con il comune denominatore della passione per la musica rock e tanta voglia di divertirsi. Sullo stage è già visibile il telone del CD omonimo, e la bocca spalancata del cane nero è un presagio di cosa accadrà.
Live report a cura di Giacomo Cerutti
Foto a cura di Michele Aldeghi

Ad aprire la serata spetta ai finlandesi Corroded, nati nel 2004 con all’attivo tre album di cui l’ultimo “State of disgrace” uscito l’anno scorso. Accolti calorosamente, partono con “Let Them Hate As Long As They Fear”, esordendo con un repertorio rock-grunge miscelato con una dose di groove. Il tempo a disposizione è poco ma con soli sei pezzi riescono a dare la spinta iniziale alla serata, a cui il pubblico risponde positivamente, acclamando la band che con “6 Ft Of Anger” lascia lo stage.
Setlist:
Let Them Hate as Long as They Fear
More than you can chew
Age of rage
Time And Again
I am the god
6 Ft Of Anger

Vedi il Photo Report completo dei Corroded!

La serata prosegue con i Black Spiders, band stoner-rock nata nel Regno Unito nel 2008 che con soli due album vanta una notevole attività live, tra cui la partecipazione ad importanti festival come l’High Voltage Festival, il Sonisphere, il Rock Am Ring, oltre ad aver supportato Thin Lizzy, Monster Magnet, Guns’n’Roses ed altri.
Introdotti dalla colonna sonora di “Qualche dollaro in più”, salutano iniziando con “KISS Tried to Kill Me” seguita da “Stay Down” dando subito prova di che pasta son fatti.
Si nota subito la presenza di tre chitarristi: Pete “The Spider” Spiby, Ozzy “The Owl” Lister e Mark “The Shark” Thomas. Dalle loro corde dilaga un susseguirsi di riff ed assolo estremamente coinvolgenti anche nei pezzi meno tirati, mentre Adam “The Fox” Irwin completa il sound facendo vibrare il basso a dovere. Pete si dimostra anche un ottimo vocalist ed un buon frontman: non perde occasione per incitare il pubblico, già impegnato a pogare e scapocciare. Complessivamente il gruppo ha una forte presenza scenica, ma senza dubbio il più scatenato è il batterista Si “The Tiger” Atkinson, un pazzo furioso che si avventa su piatti e pelli con occhi sgranati e mille smorfie.
Stasera presentano l’appena sfornato “This Savage Land” da cui traggono anche la frenetica “Stick It to the Man”: l’entusiasmo del pubblico va aumentando, ad ogni fine canzone è ripagata con applausi mentre i nostri brindano con boccali di birra. Con “What Good's a Rock Without a Roll?” i ragni neri concludono una performance di alto livello e forte impatto che ha decisamente riscaldato l’audience.
Setlist:
KISS Tried to Kill Me
Stay Down
Stick It to the Man
Trouble
Balls
Just Like a Woman
Teenage Knife Gang
What Good's a Rock Without a Roll?

Vedi il Photo Report completo dei Black Spiders!

Ora che il pubblico è ben rodato, è pronto ad accogliere il tanto atteso headliner.
Nel vedere i tecnici scoprire i muri di marshall, dalla platea si alzano gli immancabili cori “AIRBOURNE, AIRBOURNE,…” ed il ritornello di “Ready to Rock”.
Appena le luci si spengono la band entra in scena, ed è proprio sulle note di questa canzone che danno il calcio d’inizio. Corna al cielo, la platea si infiamma e il pogo parte immediato. I quattro australiani sono una vera garanzia in sede live, un concentrato di potenza ed energia, che Joel O'Keeffe e soci scaraventano sulla folla con tonnellate di decibel.
Joel O'Keeffe e David Roads sparano riff ed assolo senza sosta, solidificati dalle dure note di Justin Street al basso, mentre il fratello Ryan O'Keeffe picchia sulle pelli come un forsennato. Da “Black Dog Barking” eseguono solo 4 pezzi tra cui “Girls In black” dove Joel - come di consueto - salta in spalla ad un membro della crew che lo trasporta in giro fino al banco bar e nella zona divanetti. Per il resto ogni canzone è un trionfo, la band sprizza energia da tutti i pori mostrandosi coesa e dinamica: giusto un piccolo break con “Cheap Wine & Cheaper Women” dove il quartetto concede una lunga sorsata di vino.
I fan sono in delirio e il pogo aumenta esponenzialmente con la doppietta “Black Jack” e “Stand Up for Rock 'N' Roll”, per poi riprendere fiato nella pausa che precede l’encore.
Dopo pochi minuti dalla platea si alzano già cori di incitamento, la sete di rock non ha mai fine, finché il batterista torna on stage portando una sorta di pedivella manuale: girando si innesca il suono di una sirena, il preludio di qualcosa…
La band rientra velocemente più carica di prima, eseguendo una micidiale tripletta: “Live It Up”, seguita da “Raise the Flag”… la folla è incontenibile e si riversa sulle prime file, ma non è finita, come ultima cannonata arriva “Running Wilde”, prolungata di parecchio perché Joel - come tradizione - si piazza ai lati e al centro palco picchiandosi delle lattine di birra in testa fino a farle esplodere, il tutto condito con solos arricchiti cdon l’accenno alla mitica “Paranoid”.
Non ancora soddisfatto alza il volume cassa per cassa: nessuna pietà per i timpani, prima di riattaccare col ritornello, cantato dai fan a squarciagola.
Gli Airbourne hanno letteralmente messo a ferro e fuoco l’Alcatraz, un’esibizione ad alto tasso di energia e passione per l’hard rock che in pochi sanno trasmettere con tanta grinta, sudore e doccia di birra. I quattro australiani lasciano lo stage ricoperti da copiose urla ed applausi dal pubblico stravolto e soddisfatto.

Vedi il Photo report completo degli Airbourne!
Setlist:
Ready to Rock
Too Much, Too Young, Too Fast
Girls In Black
Back in the Game
Diamond in the Rough
Black Dog Barking
Cheap Wine & Cheaper Women
No Way But the Hard Way
Black Jack
Stand Up for Rock 'N' Roll
Encore:
Live It Up
Raise the Flag
Runnin' Wild
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Gli Skid Row, a qualche mese dalla pubblicazione dell’ultimo Ep “United World Rebellion – Part 1”, passano in Italia per quattro date a chiusura del loro tour europeo che li ha visti girare il vecchio continente in compagnia di Ugly Kid Joe e Dead City Ruins.
Dopo aver infiammato Torino e Roma, stasera la band è di scena a Scandiano (RE), mentre Udine avrà l’onore di chiudere questo tour.

Sabato 30 novembre 2013.
Live report a cura di Alex Casiddu.
Ad accoglierci troviamo una Scandiano sotto zero: il freddo è pungente, penetra nelle ossa e, come se non bastasse, durante la giornata a chi si è incamminato da altre regioni ha fatto compagnia anche la neve, fortunatamente senza creare disagi.
Fa freddo, ma la gente accorsa fin qua non se ne cura, ed ha solo una fottuta voglia di Rock N’ Roll!
Il Corallo pian piano andrà riempiendosi, avvicinandosi alla massima capienza al momento dell’ingresso degli headliner della serata.
D’altronde l’occasione è ghiotta: gli Skid Row nonostante le note vicissitudini con l’ex singer Sebastian Bach, sono ancora un nome che richiama e suscita interesse nella gente. Il fatto poi che sia sabato ha spinto molti a dirigersi verso la cittadina emiliana.

Arriviamo giusto in tempo per assistere all’apertura degli australiani Dead City Ruins, cui spetta il compito di scaldare il pubblico proponendo il loro hard rock roccioso, a tratti sconfinante nello stoner dove, su tutti, si erge la voce di Jake Wiffen, singer dotato di un’ugola veramente notevole che passa in scioltezza da acuti su note altissime a momenti più recitati ed ipnotici.
Dalla sua, il cantante può contare anche su una mimica facciale carismatica che lo rende ora posseduto da chissà quale entità, ora ammaliatore e profeta in cerca di adepti.
I quaranta minuti in loro compagnia passano piacevolmente: ringraziando il pubblico per averli applauditi, invitano chi volesse ad acquistare il loro cd (Dead City Ruins) o una loro t-shirt, in quanto non avendo alle spalle nessuna etichetta discografica, si autofinanziano completamente su tutto.
Setlist Dead City Ruins:
Broken Bones
Til Death
Dio
D.I.B.
Blues
Happenzella
Where Ya Gonna Run


Alle 23,45 il pubblico riempie in modo capillare il Corallo, scala laterale e balconate superiori comprese; “Blietzkrieg Pop” dei Ramones annuncia l’arrivo degli Skid Row sul palco.
Giusto il tempo di accendere gli amplificatori, imbracciare i propri strumenti e si attacca con “Let’s Go”, opener dell’ultimo Ep e ritorno discografico degli americani a sette anni di distanza da “Revolutions Per Minute”.
Dopo questo primo rodaggio è tempo di testare la tenuta fisica degli astanti con un trittico da cardiopalma: “Big Guns”, “Makin’ A Mess” e “Piece Of Me” scatenano il putiferio facendo diventare il pit un luogo senza legge.
Un inizio letale, quasi uno sfogo verso i tanti detrattori che si ostinano a considerarli solamente una mediocre cover band; ma è bene ricordarsi che in questo gruppo suonano Rachel Bolan e Dave “The Snake” Sabo dal 1986, Scotti Hill dal 1987, Johnny Solinger dal 1999 e il solo Rob Hammersmith dal 2010.
A conti fatti, tre membri originali ed un cantante (Solinger) che li accompagna da quattordici anni; addirittura cinque in più rispetto a quelli fatti da Bach.
Ma, come si dice in questi casi, “queste sono chiacchiere da bar” e stasera la gente è qui per acclamare i presenti e non gli assenti.
Cosa che puntualmente accade all’attacco di “18 & Life”; un boato incredibile sovrasta gli strumenti e il pubblico in delirio canta ogni singola parola, sotto gli sguardi compiaciuti dei musicisti.
Solinger fa il suo lavoro più che egregiamente; non avrà il carisma del suo predecessore, ma a differenza del Bach odierno - intento più a far roteare microfoni per aria urlando in maniera dissennata - cerca di approcciarsi nel miglior modo possibile a canzoni che ai tempi furono plasmate per una voce ben diversa dalla sua.
La cosa gli riesce più o meno a metà; in alcuni frangenti latita un po’, in altri riesce tutto sommato ad azzeccare note alte ed acuti.
“Riot Act” fa risalire la temperatura, già a livelli da forno crematorio e pelle d’oca alta mezzo metro ascoltando il giro di chitarra di “In A Darkened Room”, altra mitica ballad dei ragazzi del New Jersey.
“Kings Of Demolition” è il secondo ed ultimo estratto proposto dal nuovo Ep, suonata quasi più per obbligo che per piacere: ne è la dimostrazione la freddezza dei fan durante l’esecuzione. Il gruppo lo sa e da questo momento in poi offrirà solo classici dai primi due seminali album (Skid Row e Slave To The Grind).

Il “La” viene dato da Rachel Bolan, che si impossessa del microfono per cimentarsi col punk di “Psycho Therapy” dei Ramones, ormai adottata dagli Skidz e presenza fissa in scaletta da anni.
La chitarra classica viene riposizionata di fronte a Dave Sabo; i primi accordi sono più che sufficienti a far correre i brividi lungo la schiena: è il momento di “I Remember You”, un inno per chi vive di hard rock anni 80.
La band, conscia di questo, lascia al pubblico l’onore di cantare il ritornello, cercando con soddisfazione gli sguardi della gente.
L’emozione lascia spazio all’ ennesima scarica d’ adrenalina quando “Monkey Business” fa capolino: gli amplificatori sembrano sul punto di esplodere, mentre sotto il palco il pogo diventa incontrollabile tanto da richiedere l’intervento della sicurezza per salvaguardare l’incolumità di chi è in prima fila ed è pressato contro lo stage.
Durante la parte centrale del brano le chitarre di Scotti Hill e Dave Sabo si cimentano in un duello in cui i due mettono in mostra la loro tecnica assolo dopo assolo, alternando colpi di plettro a bevute di birra.
La prima parte del set termina qui dopo quasi 60 minuti di musica ininterrotta.
Una volta tornati sulla scena ed acclamati a gran voce dal pubblico, gli americani mettono a ferro e fuoco per l’ultima volta il Corallo: a “Sweet Little Sister”,“Get The Fuck Out” e all’inno generazionale “Youth Gone Wild” spetta il compito di chiudere questa serata ad alto voltaggio.
I sorrisi ed i ringraziamenti della band si fondono agli applausi, ai cori e alle facce esauste ma compiaciute di chi ha vissuto in prima linea lo show.
Stasera - a giudicare dall’entusiasmo dimostrato verso questa band che forse qualcuno incautamente dava già sul viale del tramonto - possiamo confermare, senza tema di smentita alcuna, che i detrattori degli Skid Row a quanto pare non erano presenti; o se c’erano, sembra siano stati convertiti!

Setlist Skid Row:
Let’s Go
Big Guns
Makin’ A Mess
Piece Of Me
18 & Life
Thick Is The Skin
Riot Act
In A Darkened Room
Kings Of Demolition
Psycho Therapy
I Remember You
Monkey Business
Slave To The Grind
Encore:
Sweet Little Sister
Get The Fuck Out
Youth Gone Wild
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26 novembre 2013 - Alcatraz, Milano

Live Report a cura di Nicola Furlan
Photo Report a cura di Michele Aldeghi
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Poca gente, clima freddo e la percezione che l'inverno abbia preso definitivamente possesso del Nord Italia sono state le sensazioni che mi accompagnavano dall'ingresso della venue al palco dell'Alcatraz, in quel di Milano lo scorso 26 novembre. Per l'occasione è in programma il concerto degli Amorphis, band, la cui importanza storica per originalità ed esclusività dell'aspetto compositivo, rappresenta di certo uno dei punti fermi dell'intero e florido panorama metal scandinavo.
I finlandesi sono accompagnati in questo tour europeo, che si concluderà in terra madre il prossimo capodanno, dai giovani americani Starkill, freschi di debutto discografico "Fires of Life", disco edito dal colosso Century Media Records.
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STARKILL
Ho conosciuto questo gruppo ora, alla prima occasione live senza sapere nemmeno chi fosse. Quale migliore considerazione se non quella dell'impatto non condizionato? Il mio punto di vista è che il gruppo abbia piglio e dimestichezza on-stage, abbia tenuta e un bel rapporto dinamico di interazione con il pubblico. Pure compositivamente il quartetto di Chicago se la cava.
La loro proposta poggia le strutture portanti su un substrato tipico dei territori svedesi, in particolare quelli che hanno caratterizzato lo Swedish Sound di inizio anni Novanta (...con meno ferocia ovviamente). Non di rado le ritmiche acellerano violentemente, riportando alla mente memorie di un black metal melodico dal gusto un po' retrò. Un gruppo di personalità! In definitiva possiamo considerare gli Starkill un interessante outsider da certificare alla prima occasione di una certa rilevanza live. Al momento le cose lasciano ben sperare...
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AMORPHIS
È il momento degli Amorphis. Capitanati dalla mente del chitarrista Esa Holopainen, i Nostri, attesi anche per i brani contenuti nell'ultimo disco uscito quest'anno "Cirlce", posson far leva sull'entusiasmo dei pochi accorsi, ma che si possono ritenere a tutti gli effetti un pubblico di alta qualità. Tanti i ritornelli cantati; tanto il coinvolgimento. A ricambiare il piacere e la fedeltà dei fan, ecco una band che porta a compimento un grande concerto.

I brani proposti pescano da tutta la discografia, anche se la dimensione più spontanea e consona è quella della band attuale, quella matura ovvero di quella dei brani post "Eclipse". È evidente che gli Amorphis, oggi come oggi, vanno pesati dall'operato e dall'abilità del cantante Tomi Joutsen. Troppo spesso ancora si rimpiangono i tempi del 'cattivo' Pasi Koskinen; troppe volte, a mio parere, non si legge dietro la mutevole, ma lineare logica degli Amorphis, il talento che li ha portati ad essere ciò che oggigiorno sono. Anche se, a dirvela tutta, non immaginate il piacere d'ascoltare Vulgar Necrolatry, cover tratta da "The Karelian Isthmus" (1992) dei vecchi 'mezzo-Amorphis', Abhorrence! Certo, lo smalto non è quello dei ragazzi che spaccavano a suon del nascente death metal di inizio anni Novanta, però lo spessore storico acquisisce ancora più profondità man mano che questa band matura con il tempo.

Una band che sa quindi anche rispolverare il passato con grande classe senza snaturare il presente. Una band 'progressiva' a tutti gli effetti e che certifica il proprio peso all'interno della presente scena metal. Un loro presente (forse) dalla vena più 'commerciale' e meno 'splendidamente amorfa' di "Elegy" (spendida l'esecuzione di My Kantele), ma che pulsa ancora di inimitabile energia. Ottimo il lavoro fonico; scolastici, ma buoni i giochi di luce.
In mezzo al tutto le apprezzatissime Sampo, Silver Bride, la già citata My Kantele, Hopeless Days, Sky Is Mine, fino a chiudere con l'attesa immortale ed immancabile Black Winter Day. Quale sigillo più adatto per iniettare nella memoria dei fan l'essenza di un concerto dal gusto invernale, esclusivo e di alto livello come quello a cui hanno assistito? Anche questo vuol dir saper scriver la storia...! Perfetti.

Setlist:
Shades of Gray
Narrow Path
Sampo
Silver Bride
Against Widows
The Wanderer
My Kantele
Into Hiding
Nightbird's Song
Vulgar Necrolatry
The Smoke
You I Need
Hopeless Days
Encore:
Sky Is Mine
Black Winter Day
House of Sleep
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A presto col report completo della serata.
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Quanta gente aspettava con ansia questo giorno? Mesi, anni, decenni dall’ultima apparizione dei Carcass in terra italiana. Finalmente il giorno è giunto, e i re del grindcore (e del death metal) sono oltretutto in ‘scaletta’ con un’altra band di culto per gli amanti del viking-death metal, gli svedesi Amon Amarth. Un’accoppiata a dir poco sensazionale di cui ci prepariamo a godere dopo i 700Km affrontati per esser presenti al ‘grande ritorno’. E come il sottoscritto, decine e decine di appassionati del metallo che non vogliono/possono assolutamente lasciarsi scappare quest’occasione unica.

Ore 20:00. Finalmente si rompono gli indugi e l'attesa per questa serata che ha tutte le carte in regola per essere esplosiva. Dopo oltre venti anni di assenza dalle scene, tocca agli inglesi Hell calcare per primi lo stage del Live Club e subito scaldano l’atmosfera con "The Age Of Nefarious", che mette presto in luce tutta la loro teatralità e drammaticità: dal corpse(face)paint alla ‘linea gotica’ scelta per gli abiti. Tutta la performance ruota intorno alla figura del vocalist David Bower, a petto nudo, con una corona di spine in testa e un frustino in costante movimento. L’impatto scenico è senz’altro quel che la band si propone, ben amalgamato al sound d’altri tempi che mette in risalto le doti canore e sceniche del leader, che si dimena, striscia e addirittura scende nel pit per praticare esorcismi a qualche (fortunato) malcapitato ‘in transenna’.
Ma il tutto fatto con cognizione di causa, passando da “On Earth as It Is in Hell“ alla drammatica "Blasphemy And The Master", con la messa in latino al suo interno (tra i primi brani scritti dalla band e appartenente al primo demo omonimo), il tutto scorre via con grande presa tra un King Diamond e un Alice Cooper d’annata. Il teatro continua con “Something Wicked This Way Comes” dal recente "Curse and Chapter" uscito proprio qualche giorno fa per la Nuclear Blast, e “The Quest” (dal demo "Scheming Demons"), che solitamente è il brano di chiusura delle loro performance. Ma non in questo caso, perché richiamati a gran voce dai presenti, gli Hell regalano un’ultima “Save Us From Those Who Would Save Us“, tra scroscianti applausi. La domanda nasce spontanea: la linea futura sarà sempre più piena di act come Hell e Ghost B.C.? Il lato scenico inizia davvero a prendere il sopravvento su quello prettamente musicale? Nemmeno il tempo di approfondire questo pensiero che un urlo si alza violento in contemporanea con la proiezione della copertina di Surgical Steel sullo sfondo.
Setlist:
01. The Age Of Nefarious
02. On Earth As It Is In Hell
03. Blasphemy And The Master
04. Something Wicked This Way Comes
05. The Quest
06. Save Us From Those Who Would Save Us

Ore 20:40. Sono troppi gli anni che separano i fan italiani dalla leggenda tornata pericolosamente in attività dopo uno stop di quasi 15 anni. L'attesa per vederli nuovamente, seppur orfani di Owen e Amott, è pari a quella che ha preceduto l’uscita del loro ultimo lavoro "Surgical Steel". Senz'altro la scelta di prender parte al tour degli Amon Amarth da 'gregari' lascia un disappunto tra i seguaci del combo inglese, ma lo stesso Walker ha ammesso in una sua recente intervista per True Metal che attualmente i Vichinghi svedesi sono più famosi dei Carcass. La scelta di proporre il nuovo disco in club non enormi spinge la band a riavvicinare (anche fisicamente) i fan, per prepararsi al meglio per un tour da headliner. Ma bando alle ciance, dopo soli dieci minuti di cambio set le note dell'intro strumentale "1985", anno di formazione del primo nucleo dei Carcass chiamato Disattack, echeggiano nell'aria colma di attesa del Live Club. Qualche decina di secondi e si parte: "Buried Dreams" sembra affermare dai primi riff che il tempo si è fermato venti anni fa, a quell'Heartwork che li ha resi al mondo con la svolta dal grind al death metal melodico. E quello che i quattro propongono è una sorta di excursus della loro carriera: i brani si susseguono a ripetizione dalla loro discografia (ad esclusione di "Swansong"), passando da “Incarnated Solvent Abuse” che dà inizio al pogo terrificante a centro parterre, fino agli slow di “This Mortal Coil” e l’intro storica di “Corporal Jigsore Quandary”. Solo "Genital Grinder" è tratta dal primo “Reek Of Putrefaction”, e usata come intro per “Exhume To Consume“, che vede Steer impegnato anche alla voce. L'aria è rovente e carica di energia, sotto i colpi inflitti dal quartetto. Il drumming di Daniel Wilding è killer (e non necessario paragonarlo per tutta la vita a Owen), e non solo su Surgical Steel. La precisione dei suoi colpi è ormai parte integrante dello stile Carcass, soprattutto sui brani del nuovo disco, che vengono messi in maggioranza rispetto agli altri ("Unfit For Human Consumption","Cadaver Pouch Conveyor System","Captive Bolt Pistol"), a causa del breve tempo messo a disposizione della band.
Gran peccato non aver ascoltato altri storici capolavori immortali, ma il pubblico è rovente e il pogo non si attenua un attimo. La band continua a picchiare a mille, concentratissima e interessata solo al presente. E il presente sono le figure di Steer e Walker, macchine da guerra alle quali sembra non sia affatto passato un briciolo dell'entusiasmo iniziale, anzi, si direbbe tutt'altro dal loro modo di 'porsi' verso i fan, con la classe del biondo chitarrista le cui mani scivolano sulla Gibson con una delicatezza che sembrerebbe in contrasto con i suoi riff devastanti, a loro volta ripresi dall’ottimo Ben Ash, per lasciar esprimere lo stesso Steer nei suoi soli melodici: una poesia nella follia totale. Jeff Walker, adrenalina pura e voce da annali della musica, cerca di distillare al minimo i tempi morti tra un brano e l’altro, rivolgendosi al pubblico con la seguente frase: “Quanti vichinghi ci sono tra voi? E quanti patologi?”. Il tempo sembra dilatarsi sotto l’assedio dei quattro che si incamminano verso fine concerto, con le note di “Ruptured In Purulence” che fanno da preludio all’inno “Heartwork", che fa trapelare nell'aria la voglia di godere di quest'ultima bordata, che regala ancora emozioni fortissime a distanza di due decadi dalla sua uscita e il cui tema principale è ‘intonato’ da tutto il Live Club. Lo show giunge al termine e la domanda nasce spontanea: già finito? Purtroppo si, ma mai come in questo caso ‘breve ma intensissimo’, perché i Carcass hanno dato (qualora ce ne fosse ancora bisogno) sfoggio di una performance devastante, con la loro classe e la loro voglia di restare a lungo nel regno di cui loro sono tra i padri fondatori e innovatori!
E dopo tutto ciò cosa aspettarsi?
Setlist:
1985 (Intro)
01. Buried Dreams
02. Incarnated Solvent Abuse
03. Unfit For Human Consumption
04. This Mortal Coil
05. Cadaver Pouch Conveyor System
06. Genital Grinder
07. Exhume To Consume
08. Corporal Jigsore Quandary
09. Captive Bolt Pistol
10. Ruptured In Purulence
11. Heartwork
1985 (Outro)

Ore 22:05. Dopo un cambio stage di ben 35 minuti, ci apprestiamo a passare dagli dei del grind/death ai figli di Odino, splittando a fatica la mente verso nuove e diverse sonorità rispetto al superbo set precedente. Agli headliner Amon Amarth tocca l’onere di chiudere questa meravigliosa serata di metallo rovente, con un palco a loro completa disposizione (mentre a Hell e Carcass era ‘riservata’ la sola parte anteriore). Quando lo striscione con la copertina del loro ultimo album “Deceiver Of The Gods” – dalla mitologia norrena rappresentante l’astuto dio Loki che combatte contro il dio Thor – è alzato sopra il palco, si alza il boato dei fan del quintetto svedese. E mentre l’intro strumentale inizia a prendere il sopravvento ricordando le gesta degli antichi Vichinghi, la band appare sul palco in un lampo di luce, come gli dei scendono da Asgard, e si presenta con l’accoppiata tratta dal loro ultimo lavoro “Father of the Wolf” e “Deceiver Of The Gods”. Il pubblico si trova di fronte una macchina rodata ormai da quindici anni, con una costanza discografica e concertistica da far invidia. Le chitarre del duo Söderberg/Mikkonen si allineano (nonostante un problema tecnico dopo il primo brano per quest’ultimo), si sovrappongono e si armonizzano, proponendo quello stile che la band ha mantenuto coerente per tutto il suo percorso, mantre il ritornello della title-track dell’ultimo disco è cantato all’unisono da tutti i presenti.
D’altronde nessun punto debole si riscontra per il quintetto svedese, che consta di una ritmica solida composta dal duo Andersson/Lundström (prestazione sopra le righe di quest’ultimo), non spettacolare ma di ‘sostanza’. I brani che si susseguono a partire dalla successiva “Death In Fire“ vengono presi da tutti i dischi ad esclusione dei primi tre, con una maggior predilezione per l’ultimo con ben cinque brani (oltre ai due iniziali, “As Loke Falls”, “We Shall Destroy” e “Warriors Of The North”), seguito da “Twilight Of The Thunder God”, che oltre alla title-track dà in prestito “Varyags Of Miklagaard”, “Live For The Kill” e “Guardians Of Asgard”. Senz’altro la setlist è vincente e non è facile non sentirsi coinvolti dalla presenza e dalla voce superba e unica di Johan Hegg, che agita la sua enorme figura sul palco col suo corno vichingo sprigionando adrenalina a fiumi. E non solo, perché la sua presenza scenica è invidiabile e riesce a coinvolgere l’intero Live Club, col suo growl disumano e un sorriso che lascia trapelare come si diverta a raccontarci storie di altri mondi. Momenti di apparente calma come “The Last Stand Of Frej“ (in cui il trio ‘corde’ davanti la batteria sincronizza un headbanging da incorniciare) e “Cry Of The Black Birds” s’alternano con le pietre miliari “Destroyer Of The Universe”, “War Of The Gods”, “Twilight Of The Thunder God”, nelle quali il pubblico non esausto (evidentemente) dopo i Carcass, si fa sentire con tutto il suo calore, intonando a gran voce i ritornelli insieme a Hegg, che spietato sputa fuori con la sua gran voce. Il gioco di luci è adatto allo show degli Amon Amarth, così come le scenografie, non invadenti ma in linea con la direzione intrapresa dalla band. La cosa che più impressiona è il pogo costante e continuo durante tutta la loro performance nei momenti in cui la band scatena il panico, incluso il ‘wall of death’ dopo l’intermezzo sinfonico di “Live For The Kill”. L’eloquente Hegg comunica continuamente col pubblico, pronunciando benissimo anche la più classica delle bestemmie…in italiano! Considerando che siamo a fine serata i Nostri si congedano con il loro inno “Pursuit Of Vikings”, che segna la chiusura delle danze con una performance di alto livello.
Setlist:
Intro
01. Father Of The Wolf
02. Deceiver Of The Gods
03. Death In Fire
04. Live For The Kill
05. As Loke Falls
06. We Shall Destroy
07. Runes To My Memory
08. Varyags Of Miklagaard
09. The Last Stand Of Frej
10. Guardians Of Asgaard
11. Warriors Of The North
12. Destroyer Of The Universe
13. Cry Of The Black Birds
14. War Of The Gods
15. Twilight Of The Thunder God
16. The Pursuit Of Vikings
Che dire! Serata esemplare, ottimo bill e una risposta calorosissima da parte del pubbico del metallo, che trasmette tutto il suo calore e partecipazione durante queste intense ore. Non cadiamo nel facile errore di paragonare Amon Amarth e Carcass, con l’ago della bilancia che naturalmente penderebbe dalla parte del quartetto inglese. Entrambi hanno offerto prestazioni di altissimo livello, seppur partendo da due basi completamente diverse, accontentando tutto il pubblico accorso al Live Club, che ha contraccambiato con un meritatissimo sold-out! Un plauso finale all’ottima organizzazione, all’acustica in grado di mettere in risalto le caratteristiche delle tre band, e l’ottimo lavoro dei cinque uomini ‘sotto-stage’, che hanno avuto un gran da fare col pubblico scatenatissimo da queste terribili band!
Live Report a cura di Vittorio 'versus' Sabelli
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Quanta gente aspettava con ansia questo giorno? Mesi, anni, decenni dall’ultima apparizione dei Carcass in terra italiana. Finalmente il giorno è giunto, e i re del grindcore (e del death metal) sono oltretutto in ‘scaletta’ con un’altra band di culto per gli amanti del viking-death metal, gli svedesi Amon Amarth. Un’accoppiata a dir poco sensazionale di cui ci prepariamo a godere dopo i 700Km affrontati per esser presenti al ‘grande ritorno’. E come il sottoscritto, decine e decine di appassionati del metallo che non vogliono/possono assolutamente lasciarsi scappare quest’occasione unica.

Ore 20:00. Finalmente si rompono gli indugi e l'attesa per questa serata che ha tutte le carte in regola per essere esplosiva. Dopo oltre venti anni di assenza dalle scene, tocca agli inglesi Hell calcare per primi lo stage del Live Club e subito scaldano l’atmosfera con "The Age Of Nefarious", che mette presto in luce tutta la loro teatralità e drammaticità: dal corpse(face)paint alla ‘linea gotica’ scelta per gli abiti. Tutta la performance ruota intorno alla figura del vocalist David Bower, a petto nudo, con una corona di spine in testa e un frustino in costante movimento. L’impatto scenico è senz’altro quel che la band si propone, ben amalgamato al sound d’altri tempi che mette in risalto le doti canore e sceniche del leader, che si dimena, striscia e addirittura scende nel pit per praticare esorcismi a qualche (fortunato) malcapitato ‘in transenna’.
Ma il tutto fatto con cognizione di causa, passando da “On Earth as It Is in Hell“ alla drammatica "Blasphemy And The Master", con la messa in latino al suo interno (tra i primi brani scritti dalla band e appartenente al primo demo omonimo), il tutto scorre via con grande presa tra un King Diamond e un Alice Cooper d’annata. Il teatro continua con “Something Wicked This Way Comes” dal recente "Curse and Chapter" uscito proprio qualche giorno fa per la Nuclear Blast, e “The Quest” (dal demo "Scheming Demons"), che solitamente è il brano di chiusura delle loro performance. Ma non in questo caso, perché richiamati a gran voce dai presenti, gli Hell regalano un’ultima “Save Us From Those Who Would Save Us“, tra scroscianti applausi. La domanda nasce spontanea: la linea futura sarà sempre più piena di act come Hell e Ghost B.C.? Il lato scenico inizia davvero a prendere il sopravvento su quello prettamente musicale? Nemmeno il tempo di approfondire questo pensiero che un urlo si alza violento in contemporanea con la proiezione della copertina di Surgical Steel sullo sfondo.
Setlist:
01. The Age Of Nefarious
02. On Earth As It Is In Hell
03. Blasphemy And The Master
04. Something Wicked This Way Comes
05. The Quest
06. Save Us From Those Who Would Save Us

Ore 20:40. Sono troppi gli anni che separano i fan italiani dalla leggenda tornata pericolosamente in attività dopo uno stop di quasi 15 anni. L'attesa per vederli nuovamente, seppur orfani di Owen e Amott, è pari a quella che ha preceduto l’uscita del loro ultimo lavoro "Surgical Steel". Senz'altro la scelta di prender parte al tour degli Amon Amarth da 'gregari' lascia un disappunto tra i seguaci del combo inglese, ma lo stesso Walker ha ammesso in una sua recente intervista per True Metal che attualmente i Vichinghi svedesi sono più famosi dei Carcass. La scelta di proporre il nuovo disco in club non enormi spinge la band a riavvicinare (anche fisicamente) i fan, per prepararsi al meglio per un tour da headliner. Ma bando alle ciance, dopo soli dieci minuti di cambio set le note dell'intro strumentale "1985", anno di formazione del primo nucleo dei Carcass chiamato Disattack, echeggiano nell'aria colma di attesa del Live Club. Qualche decina di secondi e si parte: "Buried Dreams" sembra affermare dai primi riff che il tempo si è fermato venti anni fa, a quell'"Heartwork" che li ha resi al mondo con la svolta dal grind al death metal melodico. E quello che i quattro propongono è una sorta di excursus della loro carriera: i brani si susseguono a ripetizione dalla loro discografia (ad esclusione di "Swansong"), passando da “Incarnated Solvent Abuse” che dà inizio al pogo terrificante a centro parterre, fino agli slow di “This Mortal Coil” e l’intro storica di “Corporal Jigsore Quandary”. Solo "Genital Grinder" è tratta dal primo “Reek Of Putrefaction”, e usata come intro per “Exhume To Consume“, che vede Steer impegnato anche alla voce. L'aria è rovente e carica di energia, sotto i colpi inflitti dal quartetto. Il drumming di Daniel Wilding è killer (e non necessario paragonarlo per tutta la vita a Owen), e non solo su Surgical Steel. La precisione dei suoi colpi è ormai parte integrante dello stile Carcass, soprattutto sui brani del nuovo disco, che vengono messi in maggioranza rispetto agli altri ("Unfit For Human Consumption","Cadaver Pouch Conveyor System","Captive Bolt Pistol"), a causa del breve tempo messo a disposizione della band.
Gran peccato non aver ascoltato altri storici capolavori immortali, ma il pubblico è rovente e il pogo non si attenua un attimo. La band continua a picchiare a mille, concentratissima e interessata solo al presente. E il presente sono le figure di Steer e Walker, macchine da guerra alle quali sembra non sia affatto passato un briciolo dell'entusiasmo iniziale, anzi, si direbbe tutt'altro dal loro modo di 'porsi' verso i fan, con la classe del biondo chitarrista le cui mani scivolano sulla Gibson con una delicatezza che sembrerebbe in contrasto con i suoi riff devastanti, a loro volta ripresi dall’ottimo Ben Ash, per lasciar esprimere lo stesso Steer nei suoi soli melodici: una poesia nella follia totale. Jeff Walker, adrenalina pura e voce da annali della musica, cerca di distillare al minimo i tempi morti tra un brano e l’altro, rivolgendosi al pubblico con la seguente frase: “Quanti vichinghi ci sono tra voi? E quanti patologi?”.
Il tempo sembra dilatarsi sotto l’assedio dei quattro che si incamminano verso fine concerto, con le note di “Ruptured In Purulence” che fanno da preludio all’inno "Heartwork", che fa trapelare nell'aria la voglia di godere di quest'ultima bordata, che regala ancora emozioni fortissime a distanza di due decadi dalla sua uscita e il cui tema principale è ‘intonato’ da tutto il Live Club. Lo show giunge al termine e la domanda nasce spontanea: già finito? Purtroppo si, ma mai come in questo caso ‘breve ma intensissimo’, perché i Carcass hanno dato (qualora ce ne fosse ancora bisogno) sfoggio di una performance devastante, con la loro classe e la loro voglia di restare a lungo nel regno di cui loro sono tra i padri fondatori e innovatori!
E dopo tutto ciò cosa aspettarsi?
Setlist:
1985 (Intro)
01. Buried Dreams
02. Incarnated Solvent Abuse
03. Unfit For Human Consumption
04. This Mortal Coil
05. Cadaver Pouch Conveyor System
06. Genital Grinder
07. Exhume To Consume
08. Corporal Jigsore Quandary
09. Captive Bolt Pistol
10. Ruptured In Purulence
11. Heartwork
1985 (Outro)

Ore 22:05. Dopo un cambio stage di ben 35 minuti, ci apprestiamo a passare dagli dei del grind/death ai figli di Odino, splittando a fatica la mente verso nuove e diverse sonorità rispetto al superbo set precedente. Agli headliner Amon Amarth tocca l’onere di chiudere questa meravigliosa serata di metallo rovente, con un palco a loro completa disposizione (mentre a Hell e Carcass era ‘riservata’ la sola parte anteriore). Quando lo striscione con la copertina del loro ultimo album “Deceiver Of The Gods” – dalla mitologia norrena rappresentante l’astuto dio Loki che combatte contro il dio Thor – è alzato sopra il palco, si alza il boato dei fan del quintetto svedese. E mentre l’intro strumentale inizia a prendere il sopravvento ricordando le gesta degli antichi Vichinghi, la band appare sul palco in un lampo di luce, come gli dei scendono da Asgard, e si presenta con l’accoppiata tratta dal loro ultimo lavoro “Father of the Wolf” e “Deceiver Of The Gods”. Il pubblico si trova di fronte una macchina rodata ormai da quindici anni, con una costanza discografica e concertistica da far invidia. Le chitarre del duo Söderberg/Mikkonen si allineano (nonostante un problema tecnico dopo il primo brano per quest’ultimo), si sovrappongono e si armonizzano, proponendo quello stile che la band ha mantenuto coerente per tutto il suo percorso, mantre il ritornello della title-track dell’ultimo disco è cantato all’unisono da tutti i presenti.
D’altronde nessun punto debole si riscontra per il quintetto svedese, che consta di una ritmica solida composta dal duo Andersson/Lundström (prestazione sopra le righe di quest’ultimo), non spettacolare ma di ‘sostanza’. I brani che si susseguono a partire dalla successiva “Death In Fire“ vengono presi da tutti i dischi ad esclusione dei primi tre, con una maggior predilezione per l’ultimo con ben cinque brani (oltre ai due iniziali, “As Loke Falls”, “We Shall Destroy” e “Warriors Of The North”), seguito da “Twilight Of The Thunder God”, che oltre alla title-track dà in prestito “Varyags Of Miklagaard”, “Live For The Kill” e “Guardians Of Asgard”. Senz’altro la setlist è vincente e non è facile non sentirsi coinvolti dalla presenza e dalla voce superba e unica di Johan Hegg, che agita la sua enorme figura sul palco col suo corno vichingo sprigionando adrenalina a fiumi. E non solo, perché la sua presenza scenica è invidiabile e riesce a coinvolgere l’intero Live Club, col suo growl disumano e un sorriso che lascia trapelare come si diverta a raccontarci storie di altri mondi.
Momenti di apparente calma come “The Last Stand Of Frej“ (in cui il trio ‘corde’ davanti la batteria sincronizza un headbanging da incorniciare) e “Cry Of The Black Birds” s’alternano con le pietre miliari “Destroyer Of The Universe”, “War Of The Gods”, “Twilight Of The Thunder God”, nelle quali il pubblico non esausto (evidentemente) dopo i Carcass, si fa sentire con tutto il suo calore, intonando a gran voce i ritornelli insieme a Hegg, che spietato sputa fuori con la sua gran voce. Il gioco di luci è adatto allo show degli Amon Amarth, così come le scenografie, non invadenti ma in linea con la direzione intrapresa dalla band. La cosa che più impressiona è il pogo costante e continuo durante tutta la loro performance nei momenti in cui la band scatena il panico, incluso il ‘wall of death’ dopo l’intermezzo sinfonico di “Live For The Kill”. L’eloquente Hegg comunica continuamente col pubblico, pronunciando benissimo anche la più classica delle bestemmie…in italiano! Considerando che siamo a fine serata i Nostri si congedano con il loro inno “Pursuit Of Vikings”, che segna la chiusura delle danze con una performance di alto livello.
Setlist:
01. Father Of The Wolf
02. Deceiver Of The Gods
03. Death In Fire
04. Live For The Kill
05. As Loke Falls
06. We Shall Destroy
07. Runes To My Memory
08. Varyags Of Miklagaard
09. The Last Stand Of Frej
10. Guardians Of Asgaard
11. Warriors Of The North
12. Destroyer Of The Universe
13. Cry Of The Black Birds
14. War Of The Gods
15. Twilight Of The Thunder God
16. The Pursuit Of Vikings
Che dire! Serata esemplare, ottimo bill e una risposta calorosissima da parte del pubbico del metallo, che trasmette tutto il suo calore e partecipazione durante queste intense ore. Non cadiamo nel facile errore di paragonare Amon Amarth e Carcass, con l’ago della bilancia che naturalmente penderebbe dalla parte del quartetto inglese. Entrambi hanno offerto prestazioni di altissimo livello, seppur partendo da due basi completamente diverse, accontentando tutto il pubblico accorso al Live Club, che ha contraccambiato con un meritatissimo sold-out! Un plauso finale all’ottima organizzazione, all’acustica in grado di mettere in risalto le caratteristiche delle tre band, e l’ottimo lavoro dei cinque uomini ‘sotto-stage’, che hanno avuto un gran da fare col pubblico scatenatissimo da queste terribili band!
Live Report a cura di Vittorio 'versus' Sabelli
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A presto col report completo della serata.
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Arriviamo in loco giusto in tempo per apprezzare i Faust (purtroppo motivi lavorativi non ci hanno concesso di vedere i Darkrise) i quali, penalizzati soprattutto all'inizio da suoni non ottimali, si riprendono nel giro di poco e danno il la alla nostra serata. La band di Aleister sfodera un'ottima prestazione, di grande impatto e precisione. I brani provengono ovviamente dal loro album e stupisce il fatto che SteveDiGiorgio non partecipi a nessun pezzo, avendo suonato su disco. In ogni caso, resta una performance degna di nota, ottimo preludio agli Obscura.

Decisamente carichi, gli Obscura iniziano con il loro cavallo di battaglia, cioè Anticosmic Overload. Rispetto agli scorsi tour, va detto che sembrano essere molto più spigliati e l'interazione col pubblico è aumentata non di poco, soprattutto da parte del chitarrista/cantante. Sistemati i suoni,inizialmente un po' impastati, i Nostri riescono a dar vita ad uno show ricco di pathos e impatto. La freddezza che li contraddistingueva agli esordi sembra dissolta, merito forse del "nuovo" innesto al basso che, se dal punto di vista tecnico non può dirsi all'altezza del predecessore, sembra aver donato coesione e serenità all'interno della band. Prestazione più che positiva per i tedeschi, ora non resta che attendere il piatto forte.
Setlist Obscura
The Anticosmic Overload
Incarnated
Choir Of Spirits
Imaginative Soul (inedito)
Septuagint
Ocean Gateways
Drum Solo
Centric Flow
Accompagnati dalle mille polemiche sull'uso più o meno proprio del monicker, arrivano i Death. O meglio: i sopravvissuti. Il locale è pieno in ogni ordine di posto, indice che, operazione commerciale o meno, un tributo ai Death erano in tanti ad aspettarlo, soprattutto se vede coinvolti determinati nomi.
Proponendo moltissimi estratti da Human, il tuffo al cuore è notevole e la memoria va, ovviamente, al compianto Chuck. La formazione americana non sbaglia un colpo e i presenti intonano a memoria ogni singolo verso. Colui il quale mostra di divertirsi di più è sicuramente lo scatenato Paul Masvidal, seguito a ruota da Steve DiGiorgio. I due interagiscono spesso tra loro e con il pubblico dando vita ad uno show sentito e vissuto con grande trasporto. Il ruolo di cantante/chitarrista è, invece, affidato a Max Phelps (Cynic), il quale appare estremamente concentrato e poco incline ad interagire col pubblico. Ad ogni modo, nei limiti del possibile, non fa rimpiangere il fondatore della band. Certo, il suo è il compito più difficile e probabilmente la pressione è tanta, però il concerto fila liscio e non ci sono cali da parte sua.
Un filmato con spezzoni e fotografie riguardanti il grande assente viene proiettato strappando diversi minuti di applausi e, al rientro della band il set prosegue con non poche lacrimucce che sgorgano dagli occhi dei presenti. Arriva poi il momento in cui Masvidal e Reinert abbandonano il palco in favore di metà degli Obscura, i quali eseguono una sentita Spirit Crusher. Tornati i due ex-Death sul palco, è tempo per Lack Of Comprehension, brano dichiarato come ultimo della scaletta, ma in realtà c'è ancora tempo per chiudere con Pull The Plugs, brano che segna la fine dello spettacolo.
Setlist Death
Flattering Of Emotions
Leprosy/Left To Die
Suicide Machine
In Human Form
Spiritual Healing/Within The Mind
Cosmic Sea
Intermission (Chuck Schuldiner's Tribute Video)
Zombie Ritual/Baptized In Blood
Together As One
Crystal Mountain
Spirit Crusher
Lack Of Comprehension
Pull The Plugs
Il pensiero che prende piede alla fine di questa serata è che risulta davvero incredibile cosa si possa comporre con l'ausilio di una chitarra distorta. Forse i Death senza Chuck non hanno senso di esistere, ma i brani che Schuldiner scrisse pesano irrimediabilmente sulla storia del metal e, alla fine, è questo ciò che davvero conta.
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HARDCORE SUPERSTAR + BUCKCHERRY
15/11/2013@New Age, Roncade (TV)

Difficilmente capita di poter assistere ad un doppio concerto al prezzo di uno dalle nostre parti. Quando poi a suonare sono due band del calibro di Buckcherry e Hardcore Superstar è difficile lasciarsi scappare l'occasione. E infatti al New Age di Roncade il pubblico non è di certo mancato: con il locale pieno come non mai ci siamo quindi potuti godere il ritorno in Italia di due band, di cui una ormai "di casa" nel Belpaese, gli Hardcore Superstar, e l'altra, i Buckcherry, che mancava da ben quattordici anni.

Dopo l’apertura da parte dei Venrez, da notare soprattutto per lo scatenatissimo anche se non giovanissimo (ma solo sulla carta visto quanto salta e si muove sul palco) Alex Kane alla chitarra, e il successivo cambio di palco, è il momento degli americani Buckcherry assenti, come detto, da più di un decennio dall’Italia. E la voglia di far saltare il pubblico da parte di Josh Todd si vede fin dalla primissima canzone. Si comincia con "Lit Up", primo singolo della band dal lontano 1999, canzone che parla della prima esperienza con la cocaina del cantante di Los Angeles. Si passa poi per canzoni più famose come "Crazy Bitch", "Dead" o la scatenata "Gluttony," per una scaletta che comunque comprende brani estratti dai primi due album ("Buckcherry" e "Time Bomb") come dai seguenti quattro ("15", "Black Butterfly", "All Night Long" e "Confession"), usciti dopo la reunion del 2005 ad opera di Josh e del chitarrista Keith Nelson (presenti già nella formazione originale) con l’aggiunta di Stevie D alla chitarra ritmica e di Xavier Muriel alla batteria.
Un’ora e mezza di spettacolo e puro rock e progressivo “spogliarello” di Josh, partito in camicia, bandana e occhiali per finire a petto nudo e senza accessori, mettendo in mostra il fisico completamente tatuato.
Clicca qui per vedere il Photo Report dello show dei Buckcherry!
Setlist:
01. Lit Up
02. Rescue Me
03. Broken Glass
04. All Night Long
05. Everything
06. Sorry
07. Dead
08. Ridin'
09. Gluttony
10. Nothing Left But Tears
11. Imminent Bail Out
12. Carousel
13. Crazy Bitch
14. Out of Line
15. Dirty Mind

Dopo il secondo cambio palco ecco poi il momento di Jocke e del suo gruppo, a poco più di un anno dall’ultimo concerto in Italia. E c’è da dire che la band svedese in Italia si sente veramente a casa visto quanto si diverte e coinvolge ogni volta il pubblico. Sia Jocke (che per l’occasione sfoggia una giacca marchiata Misfits) che Vic sul palco non stanno fermi neppure per un istante e i presenti ovviamente gradiscono, cantando senza sosta praticamente tutta la scaletta, composta dai loro successi storici e da brani dell’ultimo album “C’mon Take On Me” uscito proprio quest'anno. Il culmine della serata arriva con le ultime canzoni, “Above The Law”, con cui escono una prima volta per poi rientrare, acclamatissimi, sulle note di “Run to your Mama”, “Last Call for Alcohol” (eseguita facendo salire sul palco a cantare insieme a loro, il maggior numero di ragazze possibili) oltre che dell’attesissima “We Don’t Celebrate Sundays” con cui gli svedesi concludono tra mille saluti e strette di mano uno dei concerti più lunghi e attesi della stagione e che di certo non ha deluso nessuno dei presenti.
Clicca qui per vedere il Photo Report dello show degli Hardcore Superstar!
Setlist:
01. Moonshine
02. One More Minute
03. Kick on the Upperclass
04. My Good Reputation
05. Into Debauchery
06. Guestlist
07. Long Time No See
08. Dreamin' in a Casket
09. Wild Boys
10. Someone Special
11. Above The Law
12. Run to Your Mama
13. Last Call for Alcohol
14. We Don't Celebrate Sundays
Live Report e fotografie a cura di Filippo Peruz
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Pubblichiamo le foto delle esibizioni di Faust, Obscura e Death di martedì 19 novembre 2013 al Rock & Roll Arena di Romagnano Sesia.
A presto per il report completo della serata.
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KIARA LAETITIA
28/11/2013 @Rock 'n' Roll, Milano (MI)

Kiara Laetitia è una cantante italiana di origini piemontesi, nota in particolar modo per essere stata la voce degli heavy/power metaller tricolori Skylark dal 2003 al 2011. A due anni di distanza dallo split, la bionda cantante prepara il ritorno sulle scene in veste solista, forte di una non indifferente esperienza di livello internazionale maturata nel corso dell’ultimo decennio e di una ormai duratura amicizia/collaborazione con due personaggi di primissimo piano nel panorama Heavy Metal mondiale: nientemeno che David DeFeis e Edward Pursino, in due parole il cuore pulsante dei mitici Virgin Steele.
In concomitanza con la pubblicazione del nuovo EP dal titolo “Fight Now”, in uscita proprio in questi giorni, Truemetal.it ha avuto l’occasione di fare quattro chiacchiere con lei e di ammirarla in azione in un emozionante set acustico di presentazione organizzato presso il Rock ‘n’ Roll di Milano. La serata è stata scandita dalla preventivabile riproposizione dei quattro brani che compongono l’EP, inframmezzati da alcune cover di canzoni che hanno in qualche modo, come raccontato da Kiara, segnato la sua carriera musicale.
Le impressioni, durante l’esibizione, sono state addirittura migliori di quelle destate in fase di ascolto delle registrazioni da studio. Kiara dal vivo è più incisiva e assolutamente a proprio agio tanto nell’interpretare accorate ballate come “Miss You Again” o la Def Leppard-iana “When Love And Hate Collide” (il brano con cui si presentò al provino con gli Skylark anni or sono), quanto nei momenti dal taglio più hard ‘n’ heavy, come nel caso della robusta “Fight Now!”, accompagnata da un riuscito video proiettato all’inizio dello show. Non c’è nemmeno grande timore reverenziale, da parte della Laetitia, nel confrontarsi con mostri sacri quali Michael Kiske (sulle note della splendida “A Tale That Wasn’t Right”), o l’amico/mentore David DeFeis, dal cui repertorio viene estrapolata la mitica “Victory Is Mine”, rielaborata in un’elegante chiave elettroacustica.
Il tempo scorre veloce, ascoltando la voce di Kiara e il brillante accompagnamento strumentale fornito da Tiziano Malerba alla chitarra, Alessandro Porcella alle tastiere, Roberto Capetti al basso e Fabio Minelli alla batteria: giungiamo così al finale, riservato alla sempre gradita “Highway To Hell”, sulle cui note tutti i musicisti abbandonano il mood intimista conservato finora per dare un taglio più rock ad una delle maggiori hit firmate AC/DC.
Al tirar delle somme, una serata assolutamente gradevole, trascorsa in compagnia di un’artista valida e molto disponibile nel raccontare curiosità e aneddoti relativi alle fasi di lavorazione dell’album e del videoclip di “Fight Now”. Ora non resta che ascoltare l'EP e attendere l'uscita del successivo full lenght (previsto per il 2014): se amate l’Heavy Metal classico e avete un debole per i Virgin Steele più melodici e aggraziati, concedetele un ascolto, potreste rimanere piacevolmente sorpresi.
Setlist:
01. Victory Is Mine (Virgin Steele acoustic cover)
02. I Am Not God
03. When Love And Hate Collide (Def Leppard cover)
04. A Tale That Wasn’t Right (Helloween cover)
05. Fight Now!
06. Miss You Again
07. Highway To Hell (AC/DC cover)
Live Report e fotografie a cura di Stefano Burini
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VISTA CHINO + MONSTER TRUCK + THOSE FURIOUS FLAMES
16/11/2013 @Live Music Club, Trezzo Sull'Adda (MI)

Chiamateli con il nome che volete: Kyuss, Kyuss Lives o Vista Chino, non importa; ciò che conta è lo spirito e i quattro eredi del Verbo, di spirito ne hanno da vendere. Entrambi ormai sulla quarantina, e magari con qualche chilo di troppo rispetto ai tempi d'oro, John Garcia e Brant Bjork, coadiuvati dall'ormai fido Bruno Fevery e dal sempre grande Mike Dean (in prestito dai Corrosion Of Conformity) costituiscono ben più di quella che i critici più snob definiscono una "cover band di lusso" ed è sufficiente ascoltare il nuovo "Peace" per rendersene conto. L'attesa, complice anche il grande tam tam che ha seguito le ultime, devastanti, prestazioni live dei Vista Chino, è quindi elevata e, complici anche dei comprimari di un certo livello, non manchiamo di arrivare al Live di Trezzo sull'Adda con un buon anticipo. Il locale è vuoto andante e l'atmosfera ancora piuttosto fredda, ma ci sono alcuni ragazzi provenienti addirittura dalla Svizzera; l'arcano è, tuttavia, presto svelato: la prima band della serata, i Those Furious Flames, proviene proprio dalla Svizzera e toccherà proprio a loro il compito di dare il La show di qui a pochi istanti.

La serata inizia per il verso giusto nel segno dell’hard rock di marca settantina degli svizzeri Those Furious Flames. La band elvetica, capitanata da Yari Copt alla voce e completata da Yann Nick alla chitarra, G.B. al basso e Big Boss alla batteria, mette sul piatto della bilancia un bel suono dalle venature stoner, fascinosamente vintage e con una certa propensione alla psichedelia che rende i brani piuttosto vari e ben riusciti. Le canzoni proposte, dalla semiballata "Jane" con i suoi accenti da cowboy stoned song e il bel finale elettrico, alla mastodontica "The Lost Wonder" con i riffoni di memoria sabbathiana, convincono senza riserve. In più alcune trovate, come l’utilizzo del Theremin per un inconsueto assolo ad opera del bassista, danno una marcia in più ad una band meritevole di attenzione e che non si risparmia, seppur davanti ad un pubblico decisamente sparuto, onorando in maniera più che apprezzabile il proprio ruolo di opening act.

Ore 22 in punto: dopo lo show dei Those Furious Flames è la volta dei canadesi Monster Truck e il locale sembra essersi già decisamente riempito, seppur rimanendo ancora lontano dal “tutto esaurito”. Il motivo è presto detto: i canadesi, band rivelazione degli ultimi anni con all’attivo due EP e un debut album uscito proprio la primavera scorsa, godono di buona fama ed in effetti la curiosità dei presenti appare palpabile, con alcuni ragazzi che raccontano di essere venuti apposta per loro. Il loro sound é compatto e serratissimo: un misto di hard anni '70, blues e stoner, nel quale si distinguono il vocalismo di memoria roots/blues del cantante/bassista John Harvey e le tastiere (con suono Hammond) di Brandon Bliss; completano, infine, la formazione l'esagitato Jeremy Widerman alla chitarra e Steve Kiely alla batteria.
Come da copione la setlist è incentrata su buona parte dei brani che compongono il nuovo "Furiosity" e l'impatto risulta sempre elevatissimo, addirittura crescente con lo scorrere dei minuti, sorretto dalle poderose corde vocali dello schivo Harvey e dall'eroico scorrazzare e saltabeccare di Widerman a destra e a sinistra di uno stage per lo più occupato dalla strumentazione degli headliner. "Old Train", "The Lion" e "The Giant" si susseguono praticamente senza pause e con intensità, come anticipato, crescente fino a "Power Of The People", addirittura imperiosa nel suo incedere. Tocca alla splendida "For The Sun" ed è un grande hard blues, teso, rovente ed emozionate, quello che accarezza i nostri sensi, valorizzato dall'ottima prestazione vocale di un ispiratissimo John Harvey. Chiude la riuscitissima esibizione un'altra carrellata di brani sempre sospesi a mezza via tra blues, metal, hard rock e stoner massiccio; brani dal grande tiro e dall'ottima resa che non possono che suscitare l'approvazione dei presenti, siano essi fan o semplici curiosi in attesa dell'entrata in scena dei Vista Chino.
Setlist:
01. Old Train
02. The Lion
03. The Giant
04. Power of the People
05. For The Sun
06. Psychics
07. Sweet Mountain River
08. Righteous Smoke
09. Seven Seas Blues
10. Call It A Spade

Come da orario prestabilito, alle 23:10 precise i Kyus… pardon, i Vista Chino fanno il ingresso sul palco. La scenografia rimane la stessa vista sinora, ovverosia nulla, con la riuscita dello show affidata quindi interamente all’impatto live dei Tre Americani più Uno. Bruno Fevery e Mike Dean, si posizionano rispettivamente alla sinistra e alla destra di Brant Bjork, mentre l’ultimo a fare la proprio entrata in scena è proprio John Garcia, certamente la star della serata. L’apertura, un po’ a sorpresa (almeno, per chi non abbia spulciato on line la scaletta del tour per evitare spoiler), è affidata ad “Adara”, estratta dal nuovissimo “Peace”, il primo album dei Vista Chino uscito proprio qualche settimana fa. I suoni sono inizialmente imperfetti e la voce di John Garcia, piazzato in mezzo al palco in jeans e camicia fuori dai pantaloni con fare quasi scazzato, è talmente indietro da rendere davvero ardua una valutazione del suo stato di forma. Le cose cominciano, fortunatamente, a migliorare già con la successiva “One Inch Man”, prima scorribanda nel territorio dei Kyuss estratta dal sottovalutato “… And The Circus Leaves Town” e, soprattutto con “Dargona Dragona”, sulle cui note il granitico frontman sembra aver finalmente scaldato a dovere le proprie corde vocali.
Da qui in avanti il concerto prende definitivamente quota lasciando chiaramente capire il motivo per il quale i Vista Chino, pur in veste di headliner, non abbiano voluto alcun orpello a fare da scenografia sul palco: semplicemente non ne hanno alcun bisogno. L’impatto della chitarra di Bruno Fevery è impressionante, al punto da non far sentire in alcun modo la mancanza di Josh Homme, mentre la sezione ritmica conferisce una spinta continua e incessante a tutte le canzoni, in un crescendo di quelli che lasciano il segno. Completa il quadro la voce ancora potente e ringhiosa come ai tempi d’oro di John Garcia; inutile dire che la forza d’urto complessiva di tutte queste componenti è letteralmente devastante, paragonabile a quella di una frana che trascini dei carro armati giù da un pendio.

Su “Hurricane”, un macigno di dieci metri di diametro scagliato a tutta velocità contro la platea, si scatena un pogo a dir poco folle ma la risposta continua a rimanere ad altissimi livelli di partecipazione anche su “Sweet Remain”, energica e coinvolgente, con un John Garcia ora davvero straripante. Si può fare di più? Eccome! E con la spettacolare “Gardenia” i Vista Chino ne danno ampiamente prova: grande tiro, esecuzione da manuale e tutta la complicità possibile del pubblico, sempre più immerso nell’affascinante universo “stoned” dei mitici Kyuss. Potenza della musica. Spazio, di nuovo, all’ultimo parto degli ex ragazzi di Palm Desert con la bella “As You Wish”, una delle migliori tracce presenti su “Peace”, ed è positivo notare come i Vista Chino credano (giustamente, ndJ) parecchio nel loro album e come non esitino a usarne alcuni pezzi per inframmezzare i classici della Vecchia Gestione, per nulla impauriti da un confronto che è sì sfavorevole ma non certo schiacciante. Il concerto prosegue a livelli assolutamente pazzeschi con “Asteroid”, uno strumentale “da guerra” che gasa il pubblico come rare volte mi è capitato di vedere, e con la sua gemella “Supa Scoopa And The Mighty Scoop”, forse il brano principe di quel capolavoro che risponde al nome di “Welcome To Sky Valley”, qui eseguito in tutta la sua forza immaginifica. Da brividi. Tocca a “Dark And Lovely”, altra piccola gemma di recente scrittura valorizzata dalla prestazione monstre di un John Garcia che si aggrappa al suo fido microfono e arrota una serie di «YEEEEEAH!» in maniera impareggiabile, ma il bello deve ancora venire: fino ad ora, infatti, nemmeno un accordo del leggendario “Blues For The Red Sun”, con una setlist perlopiù incentrata sugli ultimi due lavori di casa Kyuss e con il più celebrato lasciato, viceversa, al palo. L’attesa viene, ad ogni modo, ripagata da una tripletta che definire storica è dire poco: parte “Thumb” e nelle prime file si scatena il delirio orchestrato da un Garcia che abbandona il caratteristico aplomb mettendosi addirittura a scapocciare a ritmo; seguono “Green Machine” e “Freedom Run” e tra riff assassini, ritmiche spezza collo e vocals ruggenti, l’intero Live va in visibilio al cospetto di un tale dispiego di Watt e Decibel.
John esce momentaneamente di scena e lo stage è tutto per Dean, Fevery e, soprattutto, Bjork, per qualche minuto anche in veste di cantante su “Planets 1&2”. Al rientro in scena, il frontman viene acclamato come un Re e mostra, finalmente, riconoscenza ai propri sudditi, riusciti nella grande impresa di strappargli addirittura un sorriso un applauso convinto. Ci avviciniamo alla fine del set e, dopo la consueta pausa, è il momento del doppio bis, affidato alla splendida “Whitewater”, da lacrime, e alla conclusiva e sempre convincente “Odissey”, entrambe estrapolate dalla Valle del Cielo.
Personalmente, e come avrete ben intuito, mi ritengo un grande fan dei Kyuss/Vista Chino; potete quindi immaginare la grande soddisfazione nel poterli ammirare live e in questo stato di forma. Avercene di “cover band” di questo livello: la potenza, fisica e immaginifica, della loro musica non è cosa che si trova tutti i giorni e dal vivo le già grandi composizioni che abbiamo adorato su disco acquistano ulteriore spessore, tiro ed atmosfera. Un solo consiglio: dovessero ripassare dalle vostre parti, non fateveli scappare per alcun motivo!
Setlist:
01. Adara
02. One Inch Man (Kyuss cover, “… And The Circus Leaves Town”)
03. Dargona Dragona
04. Hurricane (Kyuss cover, “… And The Circus Leaves Town”)
05. Sweet Remain
06. Gardenia (Kyuss cover, “Welcome To Sky Valley”)
07. As You Wish
08. Asteroid (Kyuss cover, “Welcome To Sky Valley”)
09.Supa Scoopa And The Mighty Scoop (Kyuss cover, “Welcome To Sky Valley”)
10. Dark And Lovely
11.Thumb (Kyuss cover, “Blues For The Red Sun”)
12. Green machine (Kyuss cover, “Blues For The Red Sun”)
13. Freedom Run (Kyuss cover, “Blues For The Red Sun”)
14. Planets 1 & 2
15. Whitewater (Kyuss cover, “Welcome To Sky Valley”)
16. Odissey (Kyuss cover, “Welcome To Sky Valley”)
Live Report a cura di Stefano Burini
Clicca qui per vedere il Photo Report della serata, a cura di Luca Fumi!
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A presto col report completo della serata.
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Dark Tranquillity + Tristania + Desecrate – Romagnano Sesia 22/11/13

Il pubblico vero, grande, corposo.
Quello dedicato ai grandi, alle celebrità. Alle band che hanno segnato con la loro musica una scena musicale, ponendosi quali capofila di uno stile e di un modo di scrivere canzoni.
Poche altre volte abbiamo visto la rock n’roll Arena tanto stipata di presenze, a significare come, la sera dello scorso 22 novembre, qualcosa di effettivamente superiore ne abbia calcato lo stage.
Che Mikael Stanne ed i suoi Dark Tranquillity, fossero da un ventennio una delle band più autorevoli, seguite ed amate dagli appassionati delle sonorità melodic death era un qualcosa di già ben noto e manifesto.
Quanto grandi, coinvolgenti ed adrenalinici potessero essere dal vivo, ce lo eravamo, in effetti, un po’ scordato.
Accompagnato sul palco dalla presenza gradevole, quanto ben poco ingombrante, dei genovesi Desecrate e degli storici goth metallers norvegesi Tristania, il sestetto svedese ha saputo magistralmente rinfrescare la memoria ai fortunati presenti con uno show spettacolare ed incendiario, incorniciato da un pubblico degno delle migliori occasioni.

Alle ore 21.00 precise, spetta ai liguri Desecrate l’onore di dare il via ad una serata che si rivelerà per lunghi tratti memorabile e, non dubitiamo, motivo di vanto per l’ensemble tricolore.
Il loro è un death metal decisamente melodico, in linea con gli stilemi descritti in passato da In Flames e Children Of Bodom. Piuttosto concentrato e dalla buona presenza scenica (apprezzabile l’abbigliamento comune a tutta la band), il quintetto è parso discretamente affiatato anche se, al netto di un’esperienza innegabile, a tratti poco ficcante e diretto.
Composizioni arricchite con qualche sprazzo melodico e massiccio uso di tastiere, hanno lasciato intravedere un’anima incerta sulla propria direzione definitiva, in bilico tra la voglia di irruenza death ed il desiderio di ammorbidire i toni con un approccio maggiormente orecchiabile.
Una performance comunque piacevole, che nella mezz’ora concessa è scivolata in modo composto ma purtroppo “indolore”. Senza cioè accendere più di tanto i già numerosi presenti sotto al palco. Non se ne abbia a male il volonteroso quintetto: la gran parte della platea era lì in esclusiva attesa degli acclamati headliner…

Nonostante il desiderio massimo di poter apprezzare live la macchina da guerra di Stanne e compari, era personalmente molta anche la curiosità di saggiare dal vivo lo charme goticheggiante degli storici Tristania, seminale band norvegese attiva da più di tre lustri.
Con un certo disappunto, abbiamo però dovuto constatare quanto le speranze covate prima dell’entrata in scena del gruppo – avvenuta intorno alle 21.50 – si siano poi rivelate illusorie: troppi i rimestamenti in line up occorsi negli anni, per consentire ad Anders Hilde – unico superstite della formazione originaria presente questa sera – e compagni, di mantenere intatto lo spirito ed il fascino costruito nelle prime uscite discografiche.
Quella che si presenta sul palco è, in effetti, una band quasi totalmente diversa e snaturata dalla personalità degli esordi. Se tuttavia, la “nostra” Mariangela Demurtas, deliziosa e preparatissima singer originaria di Ozieri (Sassari) ha saputo dimostrarsi abile nel non far troppo rimpiangere la grande Vibeke Stene, non così è apparso per il resto del gruppo, primo fra tutti Kietjil Nordhus, imponente quanto statico frontman.
Un po’ “fermi” e non troppo coinvolgenti, i Tristania hanno senza dubbio mostrato una buona empatia con l’audience in occasione dei brani più diretti e performanti, procurando invece qualche sbadiglio nell’esecuzione dei pezzi maggiormente articolati.
Alternanza di più voci, brani talora eccessivamente prolissi ed un atteggiamento non proprio dinamico sul palco, hanno delineato i contorni di un’esibizione “ordinata” ma non certo da ricordare.
Performance apprezzabile anche se nella norma, insomma: impossibile non sottolineare come, ad oggi, il combo norvegese debba gran parte del proprio appeal alla presenza di miss Demurtas, singer in grado si aggiungere un bel po’ di fascino ad un nome storico del panorama goth che, altrimenti, rischierebbe l’inevitabile discesa nell’anonimato.

Morti. Scomparsi. Defunti. Decaduti. Ormai privi di mordente.
Della creatura di Stanne si è detto, negli ultimi anni, un po’ di tutto, spesso in termini ben lontani dall’essere lusinghieri.
Reduce da una recente uscita discografica piuttosto altalenante e contraddittoria, il leggendario combo svedese era atteso dal pubblico italiano – tra i più affezionati da sempre – ad una prova d’orgoglio almeno dal vivo, territorio in cui i Dark Tranquillity hanno quasi sempre offerto prestazioni di livello assoluto.
E per somma fortuna, questa volta nessuna delusione e nessun motivo per cui – a posteriori – potersi lamentare: quelli saliti sul palco la sera del 22 novembre sono musicisti dagli attributi cubitali, capaci di arpionare l’audience con cattiveria, potenza, fiumi di grinta e pure un pizzico di simpatia. Come a dire che si può suonare violento death metal swedish style (sempre con molta melodia, ovvio) ed ugualmente mantenere il sorriso, la verve ed il desiderio di familiarizzare con il pubblico come ad una festa collettiva.
Curiosa la formazione disposta ora on stage senza la presenza del defezionario bassista Daniel Antonsson, le cui parti risultano assorbite da arrangiamenti e soluzioni campionate: nessun contraccolpo scenico, ne sonoro, al punto da apparire particolare quasi secondario e trascurabile.
Alle ore 23.00, dopo una lunga attesa accompagnata da un’insopportabile sottofondo “house-tunz-tunz”, lo show deflagra ed il gruppo, accompagnato da giochi di luci di grande impatto, attacca sparando a tutto volume “The Science Of Noise” uno dei pezzi del nuovo “Construct”. Alcuni attimi di studio e l’audience è già quasi totalmente soggiogata: “White Noise/Black Silence” arriva come un maglio a distruggere qualsiasi resistenza, instradando lo spettacolo su binari di completo ed assoluto godimento.
Scaletta condita da sorprese e novità quella prevista per i convenuti all’Arena valsesiana: come mai accaduto prima, l’occasione del ventennale della band è stata, infatti, propizia per l’esecuzione di un brano assolutamente straordinario, prelevato dall’enorme esordio del 1993 (“Skydancer”).
“A Bolt Of Blazing Gold”, presentato con la collaborazione di Mariangela Demurtas, ha avuto effetti quasi onirici per il sottoscritto, costretto a ritornare con la memoria all’epoca dell’acquisto del primo album e dei suoi reiterati ascolti, conditi dalla profonda convinzione – già allora – di aver scoperto una band eccellente.
In una setlist decisamente lunga - a sfiorare l’ora e cinquanta di durata - non sono comunque mancati estratti dall’intera discografia della band: una grandiosa “Punish My Heaven”, dall’altrettanto magnifico “The Gallery”, “The Mundane And The Magic” (ancora con miss Demurtas a supporto) dall’ottimo “Fiction”, la superba “The Wonders At Your Feet” (da “Haven”) e la terrificante “Lost To Apathy”, tra i momenti migliori del concerto, sublimato nel grande riff portante della stupenda “Thereln”, unica traccia proveniente da “Projector”.
Dopo un’esibizione intensa, totale e ricca di soddisfazioni, Stanne e compagni si congedano concedendo il classico bis con la deliziosa “Lethe”, ulteriore piccola sorpresa per i numerosissimi convenuti.
Band pressoché perfetta, suoni di buona qualità - pur se con la voce un po’ “annegata” nelle prime battute – spettacolo di luci di grande impatto e grandissima cornice di pubblico, sono stati gli ingredienti di un successo certamente atteso, ma non in questa debordante misura.
Solo qualche cedimento per la voce “metallica” del frontman nel finale, bilanciata da una prestazione maiuscola del resto della band (magnifici in particolare Henriksson e Sundin, concentrati per tutta la durata dello show nel confezionare tonnellate di riff ed accordi), gli ultimi commenti ad un serata dai contorni memorabili, senza ombra di dubbio, da annoverare tra le cose migliori viste on stage dal sottoscritto in tanti anni di frequentazione.
Magari discutibili su disco. Inarrestabili e superiori dal vivo…
Setlist:
01. The Science Of Noise
02. White Noise/Black Silence
03. What Only You Know
04. The Fatalist
05. The Silence In Between
06. Zero Distance
07. A Bolt Of Blazing Gold (feat. Mariangela Demurtas)
08. The Mundane And The Magic (feat. Mariangela Demurtas)
09. Punish My Heaven
10. The Wonders At Your Feet
11. Indifferent Suns
12. Iridium
13. Terminus (Where Death Is Most Alive)
14. State Of Trust
15. Endtime Hearts
16. ThereIn
17. Lost To Apathy
18. Misery’s Crown
Encore:
19. Lethe
Report e foto a cura di Fabio Vellata.
Dark Tranquillity + Tristania – Pinarella di Cervia 23/11/13
Sebbene i tonanti cieli mentitori in lontananza siano carichi di tempesta, nonostante le temperature che si sono fatte improvvisamente glaciali, sono numerosi i manipoli di metallari del centro-sud convenuti in terra romagnola, all’ingresso del Rock Planet di Pinarella di Cervia, come in un oscuro pellegrinaggio. Sotto la pioggia, i più. Fermi. Immobili. Ma c’è un’aria reverenziale, quasi religiosa in quell’attesa, mentre sempre più numerose si fanno le schiere di “fedeli” convenuti all’evento.
I cancelli aprono puntualmente alle ore 22.00, ed in pochi minuti la sala è piena per metà, ed il flusso sembra costante. Le dimensioni del Rock Planet sono sì modeste, ma di questi tempi di crisi ed “assenteismo ingiustificato” di metallari sotto i palchi il numero di presenze già dai primi minuti può dirsi sorprendente.
Ma forse è un’illusione ottica, forse è soltanto l’ora tarda, considerato che stasera suonano solo due band e che non c’è nessun gruppo minore ad intrattenere mentre la fame di Dark Tranquillity si fa via via più bestiale, anche considerato il digiuno forzato dalla cancellazione del tour europeo “Metal Attack over Europe” dell’anno scorso.

Non passano che pochi minuti ed ecco i norvegesi Tristania salire sul palco. Non li vedevo on stage da diverso tempo, tanto che ormai potrebbe trattarsi di un’altra band, considerati i travagliati avvicendamenti di lineup negli ultimi anni che ne hanno caratterizzato una vera e propria palingenesi. La setlist consta di una manciata di brani dalla durata abbastanza consistente, principalmente provenienti dall’ultimo lavoro “Darkest White”: un album in cui la band sembra aver trovato una buona alchimia, come ben evidenziato nella nostra recensione; forse non ai livelli degli esordi con la talentuosa voce operistica di Vibeke Stene ma di certo degna di nota nel panorama gothic. Orbene, l’impressione da studio si fa più forte alla luce della prestazione live: brani come “Number” o la titletrack “Darkest White” si impongono con l’austera freddezza che è marchio di fabrica della band.
Freddezza che purtroppo ha anche un rovescio della medaglia. In primo luogo, per quanto incisivi possano essere i nuovi brani, la band arranca prevedibilmente sui ‘classici’: le prepotenti campionature e la palese difformità tra la vecchia e la nuova formazione non rendono facile il lavoro dei norvegesi che sembrano talvolta una cover band di sé stessi (del passato).
Ma a trasparire in negativo, purtroppo, è proprio la staticità sul (modesto) palco dei membri della band. La chitarrista Gyri Smørdal Losnegaard sembra assorta nei suoi pensieri di viaggi caraibici (o almeno così mi è parso), il più temerario è il bassista 'baffo' Ole Vistnes col suo headbanging incessante. Ma il più grande disorientamento, almeno per il pubblico, è la presenza/assenza ciclica dei vocalist: si palesa infatti un continuo andirivieni alternato tra un pezzo e l’altro del grande (in senso meramente fisico) Kjetil Nordhus e della nostra connazionale Mariangela Demurtas, tanto che ci si chiede chi prendere come punto di riferimento.
Sebbene non abbia osato neppure troppo in patria con le esortazioni al pubblico, è proprio la Demurtas la vera curiosità dello show: convincente e pienamente consapevole della pesante eredità della Stene, la giovane sarda fa la sua parte con grande disinvoltura – tanto che la sua ottima performance ci fornisce buone ragioni per ricordare con tiepida soddisfazione lo spettacolo offerto, conclusosi con “The Year of the Rat”, celebre opener di “Rubicon”.

“Ci siamo”. Quando la batteria è stata liberata dalla sua prigione di plastica, il soundcheck è terminato e gli schermi alle spalle del palco si sintonizzano sulle tonalità di Construct non ci sono più dubbi: sarà l’inizio di uno show memorabile.
A differenza delle produzioni enormi che caratterizzano le band più importanti del panorama, nel nostro caso (per fortuna) le animazioni video invero non sono che un piacevole contorno allo spettacolo vero e proprio che si palesa dinanzi ai nostri occhi. Sulle note dell’opener “The Science of Noise” si presenta infatti un Mikael Stanne in gran forma, mentre il pubblico esaltato salta a piè pari il riscaldamento e si lancia impetuoso nel flusso delle note proposto dalla band.
Per ammissione della stessa band, lo show apre con un botta e risposta tra brani del nuovo album (“The Science of Noise”, “What Only You Know”, “The Silence in Between”) a classici del recente passato, dal grande Damage Done (“White Noise/Black Silence”) al più controverso We Are the Void (“The Fatalist”), fino al recente “Zero Distance”.
Come previsto da copione a circa 1/3 dello spettacolo entra in scena con grande classe la Demurtas che poc’anzi ci ha deliziato con i Tristania, stavolta in tenuta più aggressiva (per così dire...) per duettare con Mikael nella leggendaria “A Bolt of Blazing Gold” del lontano 1993 ed “UnDo Control”. Mi sarebbe piaciuto sentire anche “The Mundane And The Magic”, ma a quanto pare il privilegio è spettato agli amici di Romagnano (e non a noialtri della Romagna).
Terminata la parentesi duetto, Stanne sembra essere un po’ affaticato, ma la performance procede con il crescente apporto del pubblico, sempre pronto a gridare il nome dei propri beniamini tra un pezzo e l’altro, a dar loro l'energia. Stranamente l’assenza del(l'ex) bassista Daniel Antonsson non si fa sentire per tutta la durata del concerto, quasi un vantaggio ergonomico per gli incroci sul palco delle due chitarre e di uno Stanne irrefrenabile, considerate le ristrette dimensioni dell’area.
Poco il lavoro 'verbale' del frontman tra un pezzo e l’altro, le grida dei fan si fanno sovente troppo alte ed il buon Mikael malcela un certo, timido imbarazzo misto ad autocompiacimento nel sentire un pubblico tanto accalorato e pronto ad esaltare i propri eroi: l’Italia si riconferma la vera patria della band. In un paio di occasioni si segnalano anche un paio di crowdsurfing per Stanne, senza contare le incursioni della band sempre sugli scudi e sempre a cercare il pubblico in un oscuro, caldissimo abbraccio.
Dopo le cantatissime e tanto reclamate dalla platea “ThereIn” e “Misery's Crown” la band lascia la scena. Il pubblico chiama a gran voce di nuovo i nostri per il bis, mentre già pregusta il finale col botto, tanto che le due ore segnate sull’orologio dall’inizio del concerto sembrano quasi volate, ed il freddo patito per entrare è ormai un tiepido ricordo. Ecco allora rientrare la band per “Lethe” e “Lost To Apathy”, quest’ultima a riempire la curiosa mancanza di rappresentanti da Character.
Grande soddisfazione per la serata negli occhi degli astanti, e nonostante la ritrosia di alcuni elementi della band (quel buon nerd di Martin Brändström ha dribblato i fan con l’eleganza di Messi), Mikael Stanne è rimasto con grande umiltà a firmare autografi e discutere con i fan fino a serata inoltrata, gesto che fa apprezzare ulteriormente una band ormai destinata a riempire le pagine della storia del death metal melodico, con particolare merito al pubblico italiano, consuetamente presente in gran numero col corpo, con l’anima e con la voce agli show proposti dalla leggendaria band svedese.
Setlist:
01. The Science of Noise
02. White Noise/Black Silence
03. What Only You Know
04. The Fatalist
05. The Silence in Between
06. Zero Distance
07. A Bolt of Blazing Gold (con Mariangela Demurtas)
08. UnDo Control (con Mariangela Demurtas)
09. Monochromatic Stains
10. The Wonders at Your Feet
11. Indifferent Suns
12. Silence, and the Firmament Withdrew
13. Terminus (Where Death Is Most Alive)
14. State of Trust
15. Endtime Hearts
16. ThereIn
17. Misery's Crown
Encore:
18. Lethe
19. Lost to Apathy
Report a cura di Luca "Montsteen" Montini.
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